“Mentre in Somalia la situazione precipita, nella nostra regione non c’è nessuno che si interessi di cosa sta avvenendo lì. Gli Usa cercano in ogni modo di accrescere la loro influenza sul Corno d’Africa e vi investono soldi e risorse militari nel quadro della strategia di lotta al terrorismo. Nel frattempo per il mondo arabo la Somalia non costituisce un elemento degno di considerazione, dal momento che non offre opportunità di investimento a causa della scarsità di risorse naturali e del vuoto istituzionale”. Questo commento di Abdullah Iskandar apparso sul quotidiano libanese Al Hayat (La vita) sintetizza bene l’atteggiamento del mondo arabo, e della sua stampa, nei confronti della crisi somala.
Paese membro della Lega Araba dal 1974, ma la cui ‘uruba (identità araba) appare assai discutibile (la lingua principale è il somalo, non l’arabo) e sicuramente più debole della componente identitaria islamica, la Somalia è sempre stato un paese di scarso interesse per il resto del mondo arabo. E questo nonostante – fa notare Iskandar – gli interessi regionali nel Corno d’Africa siano estremamente intrecciati e condizionino gli equilibri di potere – ad esempio tra Etiopia ed Eritrea e tra Etiopia e Sudan – in un’area che l’Egitto considera tradizionalmente di sua competenza.
“Gli arabi hanno fallito nell’affrontare la crisi somala e se ne sono lavati le mani; mentre l’Etiopia si è assunta la responsabilità di rendere stabile la situazione, almeno temporaneamente, utilizzando la forza militare. Questa è un’ulteriore conferma dell’evidente debolezza dei regimi arabi e della loro incapacità di gestire una crisi in qualunque paese dell’area. Adesso una potenza confinante non-araba ha deciso di colmare il vuoto determinato dall’assenza dei governi arabi; un vuoto che ha cominciato ad emergere con la questione palestinese e si è reso sempre più evidente nel corso di crisi successive come quella dell’Iraq”.
Anche Sati‘ Nuruddìn, dalle pagine del quotidiano libanese Al-Safìr (L’ambasciatore), lamenta la scarsa capacità dei governi arabi di reagire ad eventi eclatanti come il raid aereo americano sulla Somalia, giustificato col pretesto della lotta al terrorismo. “Gli Stati arabo-islamici sono stati stavolta assai più silenziosi di quando gli Usa entrarono a Baghdad nella primavera del 2003. E questo forse perché sperano che l’azione americana riesca a contrastare il terrorismo e a prevenire lo scoppio di un conflitto su scala regionale”. Ma ciò che più preoccupa Nuruddìn è il fatto che “dal sud della Somalia proviene il segnale più evidente che la nuova offensiva militare americana è iniziata davvero, e sarà più vasta e pericolosa della precedente!”
Per l’Egiziano Muhammad ‘Ali Faqìh di Al-Ahram (Le Piramidi), questa nuova strategia Usa consiste nell’utilizzare gli alleati regionali come “strumenti di attacco”. Così, per non cadere nell’errore commesso all’epoca della missione ONU degli anni ’90 che provocò uno stillicidio di vittime tra i marines americani, gli Usa sfruttano oggi la storica inimicizia tra Somalia ed Etiopia (che occupa la regione a maggioranza somala dell’Ogaden dal 1889). “Quello che l’America vuole è generare uno stato di anarchia e caos sul modello dell’Iraq, impedendo a qualunque elemento arabo o islamico forte di stabilirsi nella regione, per trasformare l’area Mar Rosso-Oceano indiano-Golfo di Aden in un grande mare americano. L’intervento dell’esercito etiope, il più forte tra gli eserciti africani, dimostra che gli Usa hanno deciso di dipendere dall’Etiopia per fare i poliziotti del Corno d’Africa, perché è l’unico Stato cristiano nell’area”.
L’interesse degli Usa per la Somalia, comunque, va molto al di là del pericolo rappresentato dal terrorismo e dalla presenza di Al-Qaeda; è dovuto, per Faqìh, a numerosi altri fattori tra cui la vicinanza ai Paesi del Golfo e alle rotte del petrolio, la vicinanza al sud del Sudan, la presenza della Francia nel Gibuti, e al fatto che la Somalia rappresenta un retroterra di importanza strategica rispetto all’Egitto, che gli Usa potrebbero utilizzare nell’eventualità di un deterioramento dei rapporti con quel paese. In Egitto e Libano sono i quotidiani e le riviste arabe in lingua inglese e francese, generalmente destinate ai lettori stranieri, a dedicare più spazio al problema somalo e ad ospitare i commenti più infuocati sulla politica degli Stati Uniti.
Nicola Nasser scrive ad esempio sul Middle East Times: “La politica estera americana ha orchestrato la recente invasione etiope di un’altra capitale musulmana della Lega Araba, generando un nuovo focolaio di antiamericanismo militante nel già turbolento Corno d’Africa. Il messaggio è stato chiaro: nessuna metropoli araba o musulmana può restare impunita se non coopera con gli interessi Usa nella regione. Così Mogadiscio è la terza capitale araba, dopo Gerusalemme e Baghdad, a cadere sotto i colpi dell’aggressione imperialista americana, inflitti direttamente o indirettamente attraverso Israele, l’Etiopia o altri vicini. É sotto gli occhi di tutti l’obiettivo dell’America di creare una coalizione anti-araba e anti-islamica di alleati regionali”. “Ma – mette in guardia Jean Diab su La Revue du Liban – il successo militare dell’ultima operazione rischia di occultare i pericoli ancora presenti; i signori della guerra hanno ripreso Mogadiscio, ma un governo corrotto e un esercito d’occupazione straniero non sembrano essere il rimedio migliore per fronteggiare l’estremismo islamico”.
Sul futuro della Somalia, comunque, è difficile fare previsioni. Hassan Sati, esperto di Al-Sharq al-Awsat (Il Medio Oriente) sui conflitti in Africa, ritiene che “a meno di imprevedibili sviluppi la Somalia resterà un paese a cui si dovrà applicare l’etichetta di “failed state” fermo restando che ciò non ha nulla a che vedere con una nazione per la quale sembrano quanto mai calzanti questi versi di un poeta:
“A crime was committed by fools /
and punishment befell all other than the offender”.
“Gli stolti hanno commesso un crimine /
e il castigo si è abbattuto solo su chi era innocente”