Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset sul numero 105 (Gennaio-Febbraio 2008), in uscita in questi giorni (1).
A più di un anno dalla morte di Oriana Fallaci (1929-2006), giornalista, romanziera e saggista, le scienze sociali non hanno ancora analizzato lo straordinario successo riscosso in Italia dalla sua Trilogia sull’islam e l’occidente (2). Tale fenomeno presenta molte sfaccettature e chiama in causa, almeno in un primo momento, una pari varietà di distinti protocolli di ricerca. La revisione della biografia ufficiale dell’autrice, condotta di pari passo con una rilettura archeologica della sua opera, dovrebbe mirare alla ricostruzione dell’evoluzione del suo rapporto con l’islam (inaugurato nel 1954, con un’inchiesta sulla società e la famiglia imperiale iraniane). Parallelamente, il successo di pubblico della trilogia dovrebbe costituire il punto di partenza di una vera e propria analisi non solo dei fondamenti dell’essenzialismo e del differenzialismo delle tesi della Fallaci che negano una comune umanità (analisi che consentirebbe di ricollocare quelle tesi nella storia delle idee), ma anche della loro ricezione presso il pubblico, in particolare in termini di diffusione delle rappresentazioni veicolate e di modalità di risonanza (o dissonanza) con quelle dei suoi lettori più fedeli (3).
Occorre, infine, elaborare una sociologia della falsificazione (4), assumendo come oggetto di ricerca le condizioni di possibilità e le modalità di emergenza di un magistero apertamente razzista: bisogna dunque analizzare il funzionamento del campo giornalistico e del mondo intellettuale italiano, dell’universo editoriale e dei meccanismi che hanno prodotto in Italia i best seller del periodo 2001-2006, nonché l’esistenza di un «momento Fallaci» coevo e legato al «momento Berlusconi» nel campo politico. Siffatta analisi è già stata avviata (5), e le pagine seguenti costituiscono un approfondimento alla luce del nutrito materiale commemorativo pubblicato alla morte della giornalistascrittrice. Sebbene, infatti, per tutta la sua vita Oriana Fallaci sia stata la gelosa custode della propria leggenda, gli omaggi postumi che le sono stati tributati hanno rivelato, più o meno intenzionalmente, numerosi fatti inediti, facendo affiorare una polifonia di testimonianze particolarmente illuminanti sul funzionamento della sfera mediatica italiana.
L’omertà del campo giornalistico
A poche ore dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, l’allora amministratore delegato del Gruppo Rizzoli, Gianni Vallardi, riceve una telefonata dall’appartamento newyorchese di Oriana Fallaci: inorridita dalle immagini viste in televisione, la giornalistascrittrice insiste per poter reagire in qualche modo. Vallardi, che la conosce da oltre quindici anni, sa bene dell’avversione sempre più profonda che la Fallaci cova verso il mondo islamico; d’altronde, il romanzo Insciallah pubblicato nel 1990 ne è una prova sufficiente, anche senza risalire all’antipatia verso i leader musulmani che aveva intervistato vent’anni prima (6). Ciononostante, fiutando lo scoop editoriale, Vallardi contatta il suo collega Ferruccio De Bortoli (7), direttore del «Corriere della Sera», il quale si reca personalmente a New York per convincere la Fallaci ad affidare a lui le sue reazioni e invettive: da quell’incontro scaturirà l’intervento di quattro pagine pubblicato nell’edizione del 25 settembre – una lunghezza fino ad allora inedita per un articolo o una tribuna sul quotidiano milanese – che costituì una prima bozza de La rabbia e l’orgoglio. Da quel momento in poi in Italia una parte del dibattito sugli attentati dell’11 settembre degenera in una querelle sulla legittimità dell’islamofobia e sulla pretesa superiorità dell’Occidente (8).
Di contro, non suscitano pressoché alcuna reazione i numerosi errori fattuali e il totale arbitrio delle asserzioni della Fallaci (9), che avrebbero forse potuto essere visti come una violazione della deontologia giornalistica. Vero è che nel 2001, ormai, la Fallaci non si definiva più giornalista bensì solo scrittrice, e d’altra parte sin dai suoi esordi l’autrice ha rivendicato la soggettività del suo approccio come una scelta consapevole. Tuttavia, se allora tale scelta si combinava con la verifica diretta dei fatti sul campo, con un certo relativismo culturale, con la sospensione analitica del giudizio morale e con un approccio comprensivo (10), che sono andati scomparendo con la progressiva sedentarizzazione e la reclusione della scrittrice nel suo appartamento di Manhattan e nella sua villa toscana (11). I motivi di questo silenzio sugli errori fattuali e sul marcato arbitrio delle affermazioni della Fallaci si evincono tuttavia dalla lettura delle testimonianze apparse nel 2006: conscia di dovere la sua grandezza al mondo dell’opinione (12) e a una costante opera di autopromozione (13), la Fallaci imponeva con le minacce e con l’ira la censura e l’autocensura alla maggior parte dei giornalisti che volevano scrivere o parlare di lei, non esitando a trascinare in tribunale quanti trasgredivano la sua legge. Su un punto il consenso è unanime: le grandi testate di destra chiedevano l’avallo della giornalista prima di pubblicare qualsiasi scritto la riguardasse, e la violazione da parte di De Bortoli di questa regola (con la pubblicazione sul «Corriere» della risposta di Tiziano Terzani a La rabbia e l’orgoglio) (14) gli costò il rapporto con lei, come era accaduto a molti altri prima di lui.
Tale strategia è stata tanto più efficace in quanto la Fallaci era una specialista dell’elaborazione pubblica di coerenze biografiche carismatiche, essendo stata in passato maestra nel demolire quelle dei suoi intervistati (15). La scrittrice aveva capito perfettamente che il carisma si acquisisce in tre modi complementari: presentandosi come l’artefice del proprio successo; evitando le critiche e ponendosi come un personaggio sul cui conto non è possibile avere una pluralità di punti di vista (ossia, divenendo letteralmente l’oggetto di un racconto epico); infine, resistendo alla corruzione, vale a dire rimanendo uguale a se stessa, o almeno – in virtù della condizione precedente – apparendo come tale, il che impone di presentare qualsiasi nuova presa di posizione come una coerente conseguenza delle precedenti (16). Ed è precisamente quello che la Fallaci ha fatto rivendicando un impegno erede dello spirito del Risorgimento e della sua militanza, da adolescente, nella Resistenza: l’islam veniva così da lei eretto a nuovo avatar del fascismo e dell’invasore, ossia di quei nemici contro i quali aveva combattuto fin dalla sua giovinezza. Peraltro, quando la Fallaci rivendica una continuità con la sua storia passata e una fedeltà a se stessa, cioè a quella figura pubblica/epica di se che ha costruito mettendosi in scena come personaggio di tutti i suoi libri e articoli, imbastisce una coerenza narrativa centrata sulla sua persona e soggettività, e funzionale alla difesa delle sue tesi.
Le prove di plausibilità nel racconto di sé (ovverosia le prove di coerenza narrativa) fungono da operatori logico-emotivi nel processo di convincimento, sostituendosi alle prove di pertinenza: di realtà (coerenza sperimentale popperiana) o di verità (coerenza logica interconcettuale). Si tratta qui di una deriva possibile del discorso pubblico già identificata da Roland Barthes nel 1957, ma che si è andata generalizzando nella comunicazione politica dell’ultimo decennio ed è stata allora teorizzata sotto il nome di storytelling (17). Oriana Fallaci, ex-esponente del «New Journalism » soggettivista e romanziere convertita all’opinionismo politico, fu negli anni 2000 esemplare di questi story spinners che mobilizzano l’opinione attraverso la (ri)costruzione narrativa degli eventi e il loro collocamento in un racconto conservatore. Necessariamente conservatore, in quanto strutturato per entrare in risonanza con il pathos proprio del senso comune e dei pregiudizi del suo pubblico. È un discorso pubblico i cui risvolti narrativi – estranei alla ricerca dei fatti e all’argomentazione razionale – sono immediatamente performativi, in quanto assegnano un ruolo a tutti coloro che credono al racconto, rendendoli partecipi (18).
Testimoni diretti e problemi di narrazione
Paradossalmente, sono proprio queste caratteristiche dell’opera e della figura pubblica della Fallaci (indissociabili l’una dall’altra) a far risaltare la banalità della maggior parte dei necrologi apparsi sulla stampa italiana. I politici, al pari della quasi totalità degli editorialisti, hanno fatto un elogio talvolta marcato tal altra misurato delle questioni che le sue ultime opere sull’islam “pongono”… evidentemente per non alienarsi le simpatie degli (e)lettori. A fianco dell’epopea fallaciana, costituita dai libri e articoli dell’autrice stessa, si riscontrano poi i polifonici «racconti sulla Fallaci» di altri autori, che tengono a rendersi partecipi della sua «leggenda», con un’evidente intenzione di captazione simbolica. Il libro di Riccardo Nencini (Presidente della Regione Toscana) è forse la pubblicazione più emblematica di questa volontà di essere partecipe della struttura narrativa, della leggenda che la Fallaci imbastì attorno a sé stessa (19). Resoconto di alcuni incontri e dialoghi con l’autore che presero posto negli ultimi giorni di vita della scrittrice, il libro tenta di iscrivere la Fallaci nella continuità degli episodi più noti della storia della Toscana e di iscrivere nell’ultimo episodio delle gesta fallaciane la figura di Nencini stesso (con il ruolo di ultimo confidente).
Ma anche la «Lettera aperta» di Magdi Allam (videdirettore del «Corriere della Sera») (20) va letta nella prospettiva di un’adesione a questa dimensione narrativa. Appendice ad un libro che anch’esso articola un’autobiografia – che si vuole esemplare e didattica – in una narrativizzazione generalizzata dei rapporti fra Italia e islam, la Lettera si oppone alle tesi di Fallaci, ma non può farlo che dopo aver impostato un personaggio incarnato, quello del musulmano razionale e moderato, da opporre a quello fallaciano dell’imprecatrice. Con il risultato di rinforzare la struttura narrativa in cui è iscritta la controversia, contribuendo ad una distribuzione precisa di ruoli che si legittimano reciprocamente, e rinforzando dunque una trama dalla quale diventa sempre più difficile uscire. La dimensione narrativa, metapragmatica rispetto al dibattito stesso, della messa in scena della controversia contribuisce a circoscrivere e legittimare il campo intellettuale di coloro che vi partecipano, e ad escluderne altri (21). Più semplicemente, la maggioranza dei giornalisti che si sono avventurati nel racconto necrologico della vita di Oriana Fallaci sono caduti sistematicamente nella compilazione e in una maldestra parafrasi della sua opera, finendo per non offrire altro se non biografie la cui fonte principale, se non l’unica, è la stessa Fallaci.
Non sorprende, dunque, che i pochi testi interessanti – i soli a fornire davvero uno sguardo esterno ed elementi nuovi che consentano di comprendere meglio i meccanismi intimi e le motivazioni dell’autrice – siano stati scritti da osservatori partecipanti che l’hanno accompagnata nel corso della sua carriera: colleghi con i quali ha condiviso, per forza di cose, i rischi e i periodi tranquilli in cui non era sulla scena pubblica, e che pur avendo conosciuto la persona O. F. non sembrano aspirare ad un ruolo secondario nella leggenda. Bernardo Valli (22) e Massimo Fini (23), per esempio, spiegano e illustrano fino a che punto il protagonismo e la preminenza accordata all’intuizione, all’azione e al dato bruto abbiano conferito alla Fallaci un’audacia e una combattività del tutto fuori dal comune, rendendola però al contempo incapace di cogliere la complessità del mondo, se non appunto riportandola in modo diretto. Col tempo la rinuncia della Fallaci a questa attività di reportage non poteva che ineluttabilmente condurla ad un sistema di pensiero vieppiù autoreferenziale e staccato dal reale. Tantopiù che due grandi firme del giornalismo femminile italiano, quali Natalia Aspesi e Miriam Mafai, hanno sottolineato che al di là degli scoop e del successo di pubblico, l’intolleranza della Fallaci traspariva già da tempo nella sua idiosincrasia verso il femminismo inteso come lotta collettiva e nella sua ossessiva omofobia.
D’altronde, il ricordo di Rino Fisichella, vescovo, rettore della Pontificia università lateranense nonché amico della Fallaci nei suoi ultimi anni (tanto da vagliarne i testi prima della pubblicazione), dimostra in modo inequivocabile, ancorché involontario, in che misura la virulenza dell’ultima Fallaci abbia tratto legittimità dall’irrigidimento dottrinario e dall’occidentalismo del pensiero di Benedetto XVI (24). Tuttavia, a prescindere da queste rare eccezioni, nessuno ha tentato di comprendere davvero e di spiegare le cause della deriva razzista della Fallaci. Tranne Gad Lerner (25), il quale ha suggerito timidamente che tale propensione sia stata, forse, inasprita dal ripiegamento in sé stessa dovuto alla malattia nel periodo 1990-2000. Per il resto, nessuno ha mai evocato l’ipotesi di un indebolimento delle capacità cognitive legato all’avanzamento del cancro.
Come già dimostrato dal sociologo Marco Marzano (26), è una caratteristica del dibattito pubblico in Italia quella di non effettuare mai raffronti ed elaborazioni narrative che stabiliscano un rapporto di causalità con il cancro, soprattutto quando si tratta di figure intellettuali di spicco, per le quali si ritiene che la saggezza frutto dell’età resti irriducibile alla malattia. Tutti questi artefatti e tabù narrativi, espliciti o impliciti, fanno sì che proprio le ragioni, la storia causale che Oriana Fallaci ha essa stessa allestito, tendano a imporsi per difetto e a essere riprese, in varianti più o meno diversificate, dalla gran parte dei commentatori, del tipo: se la scrittrice attacca con tanta violenza l’insieme dei musulmani, vorrà dire che l’insieme dei musulmani le ha fatto qualcosa di violento. Questo perché quanto più una storia è semplice, accessibile nei suoi riferimenti e accusatoria, tanto più è facile raccontarla e farla propria (27); ma anche perché la sfera pubblica italiana è particolarmente transitiva e lineare nelle sue opposizioni: criticando la Fallaci, che è «contro» il terrorismo islamico, si rischia di essere tacciati di essere a favore del terrorismo.
Proprio a causa di questa polarizzazione della sfera pubblica nostrana, negli ultimi anni della sua vita la più adulata delle iconoclaste italiane è diventata un’icona per la destra, oltre che per i milioni di lettori dei suoi sermoni islamofobi: come dimostra l’ultimo importante ritratto-intervista a lei dedicato e pubblicato nel maggio del 2006 dalla rivista «The New Yorker» (28), l’eroina degli anni ’60-’70 si era ormai trasformata in una erinni razzista, senza peraltro che nessuno si sia interrogato seriamente su come ciò sia stato possibile, più precisamente sulle condizioni di possibilità e sulle modalità specifiche di questa metamorfosi pubblica. Giancarlo Bosetti (nel suo libro Cattiva Maestra, I libri di Reset – Marsilio 2005) fornisce in proposito un argomento convincente ma parziale: trascurando di leggere quel monumento della letteratura popolare che è la trilogia della Fallaci, gran parte degli intellettuali e degli studiosi italiani si sono preclusi la possibilità non solo di denunciare l’opera, ma altresì di analizzare lo straordinario successo che ha riscosso.
Le centinaia di articoli e di testimonianze di giornalisti pubblicati all’indomani della sua morte, forniscono un ulteriore elemento a questa spiegazione: impantanata ormai in un pensiero islamofobo solitario, Oriana Fallaci è stata trasformata in un animale da fiera mediatica da editori senza scrupolo; quegli stessi che, invece, – al pari dei colleghi della giornalista-scrittrice intimiditi dalla sua prestigiosa reputazione e dalla sua acrimonia – avrebbero potuto e dovuto esercitare un minimo di peer review sui suoi articoli (prima o dopo la pubblicazione) (29). Questo isolamento e questa vulnerabilità sono stati sfruttati per opportunismo da Gianni Vallardi e da Ferruccio De Bortoli, mentre altri, più a destra, hanno agito allo stesso modo ma per convinzione ideologica. Per questo motivo, costoro sono, al pari e forse più ancora della Fallaci, i veri responsabili dei suoi ultimi scritti (30).
Bruno Cousin è dottorando in sociologia presso l’Observatoire sociologique du changement (Sciences Po/CNRS) e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. È inoltre membro del Dipartimento di scienze politiche dell’Université de Paris 8 Vincennes Saint-Denis, dove insegna sociologia politica. Con Tommaso Vitale, ha recentemente pubblicato: «La gauche italienne face au mouvement pour les libertés civiles des sans-papiers», in Critique internationale, n. 37, dicembre 2007.
Tommaso Vitale è ricercatore di Sociologia generale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove è impegnato nei laboratori PolisLombardia e Sui Generis – Sociologia dell’azione pubblica. È associato al Groupe de Sociologie Politique et Morale (EHESS Paris/CNRS) e al Workshop in Political Theory and Policy Analysis (Indiana University). Membro della redazione di Partecipazione e Conflitto. Rivista di studi politici e sociali, ha pubblicato In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali (Franco Angeli, 2007), Le convenzioni del lavoro, il lavoro delle convenzioni (Franco Angeli, 2007; con Vando Borghi) e Alla prova della violenza. Introduzione alla sociologia pragmatica dello Stato (Editori Riuniti, 2008).
Note:
1) Questo articolo è una versione rivista e ampliata di Les liaisons dangereuses de l’islamophobie. Retour sur le « moment Fallaci » du champ journalistique italien, in «La Vie des Idées», n. 24, pp. 83-90.
2) O. Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano 2001; La forza della ragione, Rizzoli, Milano 2004; Oriana Fallaci intervista se stessa – L’Apocalisse, Rizzoli, Milano 2005.
3) In quest’ottica si inserisce l’analisi che stiamo attualmente conducendo sulle migliaia di messaggi lasciati dal 2001 sul forum Thank you Oriana, che presenta il duplice vantaggio di riunire parte di coloro che si autodefinirono fan di Oriana Fallaci e di essere stato da lei riconosciuto come rappresentantivo del suo pubblico e citato nel secondo pamphlet della trilogia. Il forum originale, e successivi omonimi, sono diventati il punto di incontro in rete dei sostenitori della Fallaci.
4) Falsificazione di cui alcuni intellettuali ed esperti del mondo musulmano hanno smontato punto per punto la retorica e smentito le affermazioni. Cfr. in particolare: S. Allievi, Niente di personale, signora Fallaci, Reggio Emilia, Aliberti 2006; A. Taheri, The Force of Reason. Book Review, «Asharq Al-Awsat», 23 agosto 2006.
5) B. Cousin, T. Vitale, Quand le racisme se fait best-seller, «La Vie des Idées», n. 3, giugno 2005; G. Bosetti, Cattiva maestra, Venezia, Marsilio 2005; B. Cousin, T. Vitale, La question migratoire et l’idéologie occidentaliste de Forza Italia, «La Vie des Idées», n. 11, aprile 2006.
6) In merito si veda S. L. Aricò, Oriana Fallaci, Southern Illinois University Press 1998.
7) Ferruccio De Bortoli, nato nel 1953, ha diretto il «Corriere della sera» dal 1997 fino al maggio del 2003. Dal gennaio del 2005 è alla guida del «Sole 24 Ore», quotidiano storico di Confindustria.
8) B. Cousin, T. Vitale, Oriana Fallaci ou la rhétorique matamore, «Mouvements», n. 23, 2002.
9) La scarsa propensione dei giornalisti italiani al controllo e alla verifica era stato già evidenziata da Cyril Lemieux, Mauvaise presse, Paris, Métailié 2000. Si veda anche M. Buonanno, L’élite senza sapere, Napoli, Liguori 1988.
10) Si vedano in particolare i suoi primi reportage sulla Guerra del Vietnam, Niente e così sia, Rizzoli, Milano 1969.
11) Questo sguardo dell’ultima Fallaci sulla realtà, costretta a casa dal progetto di scrivere un romanzo storico sulla sua famiglia (la sua annunciata opera maestra) e dalla malattia, colpisce per l’analogia con quello di del saggista francese Alain Finkielkraut, che coglie anche lui la realtà sociale esclusivamente attraverso il prisma dei media.
12) Nel senso che a questa espressione attribuiscono L. Boltanski e L. Thévenot, On Justification. The Economies of Worth, Princeton, Princeton University Press 2005 (ed. or. 1991).
13) Un processo di legittimazione paragonabile a quello a sostegno della figura di Bernard-Henry Lévy in Francia, anche lui un saggista fortemente mediatizzato. Cfr.: P. Cohen, BHL, une biographie, Paris, Fayard 2005. La Fallaci è vissuta per molto tempo nel mito di Curzio Malaparte, così come Lévy in quello di Malraux.
14) Tiziano Terzani (1938-2004) è stato in Italia nei primi anni del nuovo millennio l’altra grande autorità intellettuale pubblica; un ruolo, questo, che lui e la Fallaci ereditarono alla morte di Indro Montanelli (1909-2001).
15) Cfr. O. Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli, Milano 1974.
16) L’individuazione di queste tre modalità di costruzione del carisma deve molto alle discussioni con Luc Boltanski.
17) R. Barthes, Mythologies, Paris, Seuil 1957, p. 50; C. Salmon, Storytelling, la machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, Paris, La Découverte 2007.
18) Vale la pena qui ricordare come anche la mostra "Oriana Fallaci. Intervista con la Storia", promossa dal Ministero per i Beni culturali, e con grandissimo successo di pubblico (ivi comprese le scolaresche) stia partecipando del dispositivo narrativo ed epico impostato con cura dalla Fallaci stessa; si veda il catalogo della mostra (a Milano, settembre-novembre 2007; a Roma, dicembre-gennaio 2008): A. Cannavò, A. Nicosia, E. Perazzi (a cura di), Oriana Fallaci. Intervista con la Storia. Immagini e parole di una vita, Milano, Rizzoli 2007.
19) Una configurazione di partecipazione narrativa che traspare sin dal titolo del libro: R. Nencini, Oriana Fallaci. Morirò in piedi, Firenze, Polistampa 2007.
20) Magdi Allam, "Lettera aperta a Oriana Fallaci", in Vincere la paura. La mia vita contro il terrorismo islamico e l’incoscienza dell’Occidente, Milano, Mondadori 2005.
21) Si veda P. Bourdieu, Ce que parler veut dire, Paris, Fayard 1982. Più in generale, per valutare l’importanza di questo paradigma narrativo nella comunicazione politica e nella critica sociale, è interessante notare che anche i libri che si oppongono a quelli di Fallaci raccogliendo maggior successo nel pubblico, lo fanno proponendo delle contro-narrazioni, dei racconti alternativi delle migrazioni internazionali, costruite anch’esse mediante diversi dispositivi di storytelling: raccolta di interviste biografiche (M. Rovelli), romanzo (R. Saviano), o inchiesta giornalistica (F. Gatti).
22) Bernardo Valli, nato nel 1930 e attualmente a capo della redazione francese de «La Repubblica», è stato a contatto con la Fallaci soprattutto nel periodo in cui erano entrambi inviati di guerra in Vietnam.
23) Massimo Fini, nato nel 1943, giornalista, collabora oggi con numerose testate di destra e ha lavorato con la Fallaci a «L’Europeo» negli anni ’70.
24) Negli ultimi anni della sua vita la Fallaci si definiva «atea cristiana», cioè non credente ma profondamente cristiana sul piano culturale.
25) Giornalista e saggista vicino al Partito democratico, conduce il talk show politico-culturale L’Infedele.
26) M. Marzano, Scene finali. Morire di cancro in Italia, Bologna, Il Mulino 2004.
27) In merito si veda C. Tilly, Un’altra prospettiva sulle convenzioni, in V. Borghi e T. Vitale (a cura di), Le convenzioni del lavoro, il lavoro delle convenzioni, Milano, FrancoAngeli 2007.
28) M. Talbot, The Agitator. Oriana Fallaci directs her fury towards Islam, «The New Yorker», 5 giugno 2006.
29) Sulle peculiarità del mondo giornalistico italiano, cfr.: D. C. Hallin e P. Mancini, Modelli di giornalismo, Roma-Bari, Laterza 2004; C. Sorrentino (a cura di), Il campo giornalistico, Roma, Carocci 2006.
30) Diciamo questo senza negare, al contempo, che la linea editoriale in materia del «Corriere della Sera» ha dato prova di una certa continuità anche dopo la sostituzione di De Bortoli con Paolo Mieli, e con il ruolo di spicco che è venuto ad assumere Magdi Allam. Proprio Magdi Allam, in effetti, dopo essere stato duramente criticato dalla Fallaci, ed averla accusata di qualunquismo, rivendicherà nel settembre 2006, al contrario, una grande continuità fra la sua posizione e quella della Fallaci. Cfr. G. Bosetti, Ora l’islamico Magdi ama Oriana. Ma Oriana amò Magdi l’islamico?, «Il Riformista», 22 settembre 2006.
Traduzione di Marianna Matullo