Il termine burkini deriva dalla fusione di burka e bikini, due capi d’abbigliamento agli antipodi. Cosa si nasconde dietro?
Nel mercato circolano merci che incorporano valori, perché c’è un segmento di beni di «salvezza». Per capire quanto accade col burkini, è utile citare il caso della Mecca-Cola, prodotto simile alla Coca-Cola, che un imprenditore tunisino ha lanciato assemblando un brand di carattere globale con un simbolo indiscusso per l’ecumene musulmano, e con un aspetto proprio dell’impresa etico-sociale (una percentuale degli utili destinati alla causa palestinese). Risultato: in Medio Oriente la Mecca-Cola ha eroso il 20% del mercato della Coca-Cola.
Il burkini è un esempio di problematicità nei rapporti tra costumi islamici e occidentali. Come mai negli ultimi tempi li si esaspera?
Il burkini è un sotto-prodotto, un po’ sciatto, di una battaglia politica più ampia combattuta in diversi Paesi a maggioranza musulmana. Esasperazione iniziata con la rivoluzione iraniana del 1979 e che ha trovato il suo picco con l’11 settembre. Nella costruzione dell’islam come nemico dell’Occidente hanno però contribuito molti, non solo «noi» occidentali (come pensava Said), ma anche l’elite politico-religiosa post-coloniale che si è formata in diversi Paesi a maggioranza musulmana.
E’ una questione europea: dal caso di Carole, francese convertita all’islam, cui è stato vietato di entrare in acqua col burkini, a quello delle polemiche in Gran Bretagna, dove in alcune piscine sono stati previsti i burkini anche per non islamiche; problemi anche in Germania dove l’integrazione della comunità turca s’intreccia con la questione del genocidio armeno e il loro crescente potere elettorale. Quale politica europea dell’integrazione è possibile?
Il problema c’è in tutta l’Unione, cambia l’acutezza e la complessità delle tematiche. Come ricordava il Primate della Chiesa d’Inghilterra, Rowan Williams, una parte dei cittadini inglesi in alcune materie segue la Shari’a e qualche giudice di fronte a controversie complesse si avvale di pareri di esperti in diritto religioso, facendone tesoro per prendere la decisione finale. Se non vogliamo arrivare ad un pluralismo degli ordinamenti giuridici, che provocherebbe disgregazione delle norme sociali, occorre puntare sulle nuove generazioni di immigrati.
Sarkozy ha proposto di vietare il burqa. Come si concilia ciò con un Paese che ha la comunità musulmana più numerosa d’Europa, dove il 70% dei fedeli rispetta il digiuno?
Non limitarsi a vietare sarebbe più produttivo. E’ questa la complessa strada che la Commissione Stasi ha imboccato, lasciando al legislatore la difficile decisione di proibire l’ostentazione di simboli religiosi nei luoghi pubblici. Un divieto del burqa va bene se è accompagnato da una discussione pubblica in cui siano coinvolte persone di fede musulmana.
In Italia, a Verona, è scoppiata la polemica su una musulmana presentatasi in piscina col burkini. Le mamme hanno detto che i bambini si sono spaventati. Difficile da credere considerando che i ragazzini crescono tra colonne sonore di cartoni truculenti e film horror. Non crede invece che spesso non si abbia il coraggio di dire che si ha paura del diverso?
Sono d’accordo. Sono leggende che nascondono la verità; sarebbe più serio se questi adulti dicessero che non ne possono più di immigrati e in particolare che una parte – di fede musulmana – «dovrebbe tornarsene a casa». Da quando si è introdotta nel senso comune l’idea che «i musulmani» non si integrano o si integrano meno di altri, incidenti di percorso (dal burkini alla preghiera in piazza Duomo, non parliamo della richiesta di costruzione di una moschea) diventano pretesti per dimostrare che «loro» non sono compatibili con «noi»; anche se vivono da anni, lavorano e fanno figli in Italia.
Dove conduce una società impaurita?
A non progettare il futuro.
Come influenzano l’opinione pubblica le reazioni di forze politiche come la Lega Nord – oppure il Partito della Libertà olandese o quello dei Veri Finlandesi – che inneggiano, per fare qualche esempio italiano, carrozze separate nelle metropolitane, le ronde e le crociate alimentari?
La crescita di partiti che mettono al primo posto il contrasto è sintomatico di malessere reale e diffuso. Per almeno un terzo della popolazione europea non è più sostenibile una società multiculturale come sinora prefigurata: da Rotterdam al quartiere Kreuzberg di Berlino, da alcuni quartieri di Bradford e Birmingham alle aree densamente pluri-culturali come St. Denis a Parigi; tante enclave etniche relativamente omogenee. La Lega fa leva sulla percezione diffusa che «non siamo più a casa nostra». Lo slogan è efficace, perché siamo invasi da ondate incontrollate di immigrati, da qui il consenso ai respingimenti senza troppi controlli internazionali. C’è però una parte dell’opinione pubblica, di persone che ogni giorno si misura con i temi dell’integrazione (dalle scuole agli ospedali, dall’impresa alla famiglia con anziani), che guarda con realismo al fenomeno, pensa sia irreversibile e crede conciliabile il benessere degli immigrati con gli interessi generali: direbbe Adam Smith, con la «ricchezza della nazione».