Questo testo è il terzo intervento di Andrew Arato nel dialogo svoltosi tra l’autore e il filosofo Hassan Hanafi, pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).
Farò un altro tentativo. Non serve a nulla riconoscere a molti degli Stati attuali la pretesa di essere democratici. Perché non segue l’orientamento critico dei sociologi israeliani, come Kimmerling (da poco scomparso) o come Yiftachel che parlano di Herrenvolkdemocracy o di «etnocrazia»? Perché accoglie implicitamente l’affermazione che è possibile, per uno Stato a società divisa, essere democratico ed etnicamente ebraico? Perché invece non segue l’esempio dei post-sionisti israeliani, come il mio amico Uri Ram che spera di democratizzare il paese facendone lo Stato di tutti i suoi cittadini? Questo non ha senso, a meno che attraverso questo connubio lei non voglia censurare la democrazia liberale. Allo stesso modo, perché accettare l’affermazione che l’America è la pietra di paragone della democrazia? Nel 2003 gli Stati Uniti sono andati in guerra in modo democratico oppure attraverso una prerogativa presidenziale (come ancor più apertamente ha fatto la Gran Bretagna, attraverso l’uso della prerogativa reale)? Il voto del Congresso certamente non ha soddisfatto i requisiti costituzionali ed è apparso chiaro che il Presidente non doveva iniziare quella guerra. Era lo stesso Bush eletto democraticamente nel 2000? È il denaro o sono gli elettori a dominare le elezioni americane? Su ciò sono d’accordo con lei, ma questo non è un punto a sfavore della democrazia liberale. Lei fa notare, come farei anch’io, che gli Stati Uniti soffrono di un deficit democratico.
Suggerisco di considerare la democrazia un concetto a due livelli, uno normativo e l’altro empirico. Dahl ha definito quest’ultimo «poliarchia» e Israele e gli Stati Uniti sono poliarchie (mentre l’Egitto non lo è), a causa della lotta per il potere che si verifica tra numerose élites. Le poliarchie, almeno quelle moderne, hanno bisogno della legittimazione democratica e, alla luce di tale premessa, possono essere più o meno democratiche da un punto di vista normativo. Israele si trova all’estremità non democratica a causa dell’esclusione etnica che vi si pratica, della scarsa tutela dei diritti, delle imposizioni comunitarie su ciò che è secolare e, soprattutto, a causa del suo quasi permanente stato d’emergenza in gran parte del territorio controllato dallo Stato. Gli Usa sono molto più democratici e, mi dispiace doverlo dire, ciò che lei dice sugli americani di colore e su quelli di origine messicana è sbagliato. Anche gli Indiani d’America sono liberi di lasciare le riserve.
Tutti e tre i gruppi minoritari hanno infatti gli stessi diritti formali degli altri cittadini, a differenza degli arabi israeliani, malgrado le numerose disparità sociali e di classe. Ciò nonostante, le più importanti decisioni politiche di cui lei parla, negli Stati Uniti non sono state prese in modo democratico, e il sistema lascia ampio margine alle prerogative dell’esecutivo, alla corruzione oligarchica e alla manipolazione dei mezzi di comunicazione. Il sistema bipartitico è, in effetti, escludente (in questo, le regole elettorali di Israele sono migliori, sebbene presentino anch’esse dei difetti!). Questi elementi non sono segni di democrazia, come lei sembra suggerire, ma insufficienze dal punto di vista democratico che non arrivano però al punto di invalidarne il carattere poliarchico. Ciò è accaduto nella Germania di Weimar e nell’Italia prefascista, ma non si può dire che è stata l’autodistruzione delle istituzioni democratiche a determinare il passaggio alle dittature. In Germania fu l’articolo 48 della Costituzione (sui provvedimenti d’emergenza), assieme ad altre prerogative del Presidente, ciò che portò alla vittoria di Hitler, non il voto (egli ebbe la maggioranza relativa dei voti soltanto in uno schieramento multipartitico e nelle precedenti elezioni presidenziali aveva perso pesantemente).
Non credo che si possa respingere la democrazia multipartitica e avere ugualmente una democrazia moderna. Anche Trotsky imparò questa dura lezione che per gli euro-comunisti, naturalmente, non fu tale allorché si trovarono alle prese con il socialismo democratico di Bernstein. Penso che la descrizione che lei offre del sistema egemonico giapponese sia lacunosa perché, nonostante il fatto che il vincitore sia sempre lo stesso, c’è tuttavia un’intensa competizione tra i partiti e una sfera pubblica forte e critica vi svolge lo stesso ruolo che gioca nelle democrazie liberali. Anche in Italia vi è stato, per varie ragioni e per lungo tempo, il dominio o l’egemonia di un partito senza tuttavia che il sistema italiano abbia cessato di essere fortemente competitivo a vari livelli. La poliarchia non è democrazia, ma ne costituisce una condizione necessaria. Insistere nell’idea che una democrazia possa avere istituzioni completamente diverse da quelle della poliarchia, è fuorviante. È vero, c’è bisogno di una società civile, di elezioni, partiti, costituzioni, di un potere giudiziario indipendente, che vi sia tutela dei diritti individuali quando essi riguardano la partecipazione politica e, soprattutto, di una sfera pubblica libera. Ma il punto di partenza non può essere una cultura politica democratica, perché in tal caso potremmo dover aspettare per un tempo indefinito. Piuttosto, considero il rapporto tra cultura e politica come un processo circolare: elementi di una cultura democratica elitaria sono necessari alle istituzioni democratiche le quali, se funzionanti, contribuiranno a sviluppare una cultura democratica più allargata e tale da costituire la base per una riforma democratica delle istituzioni, e così via.
Dove fondamentalmente concordo con lei, è sul tema della democrazia imposta con la forza. Si tratta di una contraddizione in termini: il tentativo stesso è tale da invalidare il risultato, sia che le intenzioni siano buone o no, e di solito non lo sono. Il doppio concetto di democrazia che sto tentando di formulare aiuta a capire perché le cose stanno in questo modo. La poliarchia può essere imposta, almeno temporaneamente, se c’è la forza sufficiente. Ma senza legittimità democratica, essa è un guscio vuoto. Quando vi è imposizione, almeno nel nostro mondo fortemente segnato dal nazionalismo e dal post-colonialismo, essa è necessariamente circondata da illegittimità. Qualcuno la sostiene (i curdi in Iraq), ma per tornaconto personale. Altri l’accettano (gli sciiti) perché sperano di manipolarla. Ma nessuno sostiene che sia giusta perché la regola della democrazia contiene autodeterminazione e autonomia e le dittature (per esempio i mandati del passato) non sono compatibili con essa.
Non sono tuttavia d’accordo sul fatto che portare oggi argomenti a favore della democrazia debba essere semplicemente lo strumento per distruggere Stati deboli che sono d’ostacolo al neoliberalismo o all’impero americano. Le cose non stavano in questo modo negli anni Ottanta e Novanta, quando sostenevamo la causa della democrazia e quando molti Stati riacquistarono la loro sovranità nei confronti dei due blocchi rivali. Certamente, la disgregazione degli Stati multinazionali segnala un problema importante. Le dittature furono forse più abili delle democrazie a contenere e reprimere la divisione sociale, culturale e religiosa. Ciò nonostante, esse restano inaccettabili sotto molti altri punti di vista, né questo argomento può essere usato per arginare gli sforzi compiuti dall’interno in direzione della democrazia, che invece dovrebbero essere appoggiati.
Ciò che tuttavia è vero è che per portare argomenti a favore della democrazia dopo quello che è successo in Iraq dobbiamo riconsiderare il rapporto tra Stato moderno e regime democratico. La democrazia è un grande valore, ma non è l’unico. Inoltre, non è possibile senza uno Stato, come è apparso in modo evidente in Iraq, qualunque cosa dica la Carta costituzionale. Perciò anche le forme attenuate di pressione e di esortazione in nome dei diritti umani devono prendere in considerazione l’integrità delle strutture dello Stato e le tradizioni necessarie a sostenerle. A dire il vero, a questo riguardo la democratizzazione potrebbe funzionare anche nel senso di un rafforzamento dello Stato dando origine ad una nuova legittimità ai sistemi caratterizzati da istituzioni poliarchiche.
Andrew Arato, costituzionalista, è professore di Political and Social Theory presso la cattedra Dorothy Hart Hirshon della New School University di New York. Nel corso delle sue ricerche si è occupato della Scuola di Francoforte, di storia del pensiero sociale e di teorie delle società dell’estremo Oriente e dei movimenti sociali. Le sue attuali ricerche vertono sulla sociologia del diritto e sulle teorie delle società modello. È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali Sistani v. Bush: Constitutional Politics in Iraq (2004), The Occupation of Iraq and the Difficult Transition from Dictatorship (2003), Civil Society, Constitution and Legitimacy (2000).
Traduzione di Antonella Cesarini