Ripetiamo spesso, qui in Algeria, che allo stato attuale godiamo di condizioni molto favorevoli per la risoluzione dei nostri problemi economici e sociali, per agganciare la nostra economia a quella mondiale e per proteggerci, beninteso, dagli effetti negativi della globalizzazione. Un vento di ottimismo soffia sul paese in seguito alla schiarita finanziaria, che il paese conosce da ormai quasi sette anni, dovuta essenzialmente all’impennata dei prezzi del petrolio, che si avvicina alla soglia dei 130 dollari al barile, e all’estirpazione pressoché totale del terrorismo. Tuttavia, spesso dimentichiamo di porci alcune domande: a che punto siamo noi rispetto al fenomeno globale? Riuscirà l’Algeria a saltare sul treno, già in marcia, della globalizzazione? Siamo vittime o beneficiari della dinamica innescata dall’amplificazione di questo fenomeno di scala planetaria?
Innanzitutto, da un punto di vista metodologico è difficile trovare uno strumento per misurare con esattezza gli effetti della globalizzazione, siano essi positivi o negativi. Questa difficoltà scaturisce in particolar modo dall’assenza di organismi nazionali credibili e affidabili che si occupino di statistiche e previsioni. Ma è comunque possibile farsi un’idea, basandosi sul nostro ruolo all’interno di questa dinamica di scambi in ogni settore che anima il pianeta intero. Di che spazio, per quanto piccolo, disponiamo all’interno di questo gigantesco movimento di beni di consumo, servizi, tecnologia, industria della cultura, ecc.? A mio avviso, la conclusione è spaventosa! Allo stato attuale noi continuiamo a funzionare con un sistema che trova difficoltà ad agganciarsi al mondo che lo circonda e a vivere con esso in armonia e in osmosi proprio perché non riesce, in generale, a integrare questo dato che si impone su scala planetaria: la globalizzazione.
Certo, si può osservare che al livello del discorso politico molte cose sono cambiate: siamo riusciti a sbarazzarci delle convinzioni staliniane di epoca sovietica che demonizzavano ogni apertura al mondo esterno, in particolare all’Occidente, e dipingevano a tinte fosche lo scenario internazionale con i suoi valori di privatizzazione, di economia di mercato, di flusso di capitali, di libero commercio di servizi, di beni industriali e di consumo, e persino di prodotti culturali. Nostro malgrado, oggi noi riconosciamo che “il villaggio globale”, se mi è concesso riprendere la definizione del celebre McLuhan, è fuori dall’uscio,e che bisogna trovare le strade e i mezzi idonei per ricavarsi un posto in un mondo in continuo cambiamento. Ma tra i discorsi e la pratica c’è un abisso. Da noi, il paradosso è che “si prendono gli stessi e si ricomincia”, come recita l’adagio popolare, poiché gli stessi zelanti difensori del socialismo sono diventati, ironia della sorte, i celebratori del liberalismo e dell’economia di mercato.
Eppure, noi siamo già entrati in pieno nella globalizzazione; meglio ancora, noi ne subiamo gli effetti da soggetti passivi piuttosto che da attori. Prodotti di vasto consumo e attrezzature sbarcano nei nostri porti, mano d’opera straniera, principalmente cinese, invade i nostri cantieri, capitali e investimenti stranieri, sebbene in numero limitato rispetto ai nostri vicini tunisini e marocchini, si installano nel nostro paese, prodotti culturali standardizzati sono consumati anche da noi. Persino il terrorismo non è più un fenomeno locale, dal momento che l’Algeria ha dovuto partecipare de facto alla “global war on terror” imposta dagli Stati Uniti a e dai loro alleati in seguito ai fatti dell’undici settembre 2001. A questo riguardo, Algeri sembra diventare la Mecca “dell’antiterrorismo” dopo essere stata, negli anni Settanta, quella del “terzomondismo”. E non nasconde di gustare con un pizzico di soddisfazione la vittoria sulla propria sorte, poco invidiabile, dopo che nessuno le prestò attenzione durante il decennio “nero” vissuto nei Novanta.
Non c’è nulla di tipicamente algerino a caratterizzare la prosperità economica senza precedenti che il paese assapora, con più di 110 miliardi di dollari di riserve di scambio, introiti ottenuti dalla esportazione degli idrocarburi che raggiungeranno gli 80 miliardi di dollari alla fine del 2008, e un debito estero ridotto, per via del rimborso anticipato, alla congrua del 5% del PIL. È la storia di tutti i paesi petroliferi. Lo specifico algerino deriva dal contrasto tra queste risorse, ineguagliate nella storia del paese, e la persistenza di una situazione sociale inquietante, legata principalmente alla cattiva ripartizione della ricchezza e alla lentezza nell’attuazione delle riforme economiche. Di fatto, l’Algeria è diventata un paese ricco con una popolazione povera. Siamo diventati semplici esportatori di ricchezza, di capitali, mentre nel 2007 abbiamo importato competenze dall’esterno per un valore di 27 miliardi di dollari.
Ci siamo accomodati su di uno schema di società consumista ed estroversa anche dopo che il nostro apparato di produzione industriale si è fermato, in seguito all’abbandono delle politiche di produzione. Rimaniamo un paese che esporta unicamente idrocarburi, che rappresentano il 97% dei nostri introiti annuali in valute estere. Ciononostante il tasso di disoccupazione sfiora, secondo le cifre ufficiali, il 13% nel 2007 e il numero di persone che vivono al di sotto della soglia della povertà è stimato, secondo il PNUD, a quasi 10 milioni di persone (su una popolazione di 35 milioni) nel 2007. La sfida dell’Algeria si pone in termini di riciclaggio della manna finanziaria generata dalla rendita petrolifera, un’autentica macchina produttrice di ricchezza duratura, a patto di uno sviluppo, in particolar modo, dei settori dei servizi, del turismo e dell’agricoltura. Detto in altri termini, bisognerebbe re-imparare a lavorare invece di restare schiavi della rendita petrolifera.
L’Algeria resta l’unico paese dell’OPEC, dopo la Libia, a non essere ancora membro del Wto. Da più di dieci anni negozia ininterrottamente il suo ingresso, ma non appare pronta ad aderirvi subito per via dei ritardi accumulati nella riforma dei testi di legislazione e regolamentazione che disciplinano l’attività economica, lontana dagli standard mondiali. Le sue negoziazioni con il Wto, che sono all’undicesima ripresa, inciampano sulla spinosa questione dei prezzi interni della energia, dieci volte inferiori a quelli del mercato mondiale. Di nuovo, l’Algeria preferisce funzionare con una economia al di fuori delle norme e degli standard generali; basta dare uno sguardo al nostro sistema bancario per constatarne con amarezza il degrado.
Certo, abbiamo tratto profitto dall’evoluzione tecnologica, in particolar modo attraverso la democratizzazione dell’utilizzo del telefono cellulare e di internet, così come dall’accesso ai programmi delle reti satellitari straniere. Gli algerini sono molto più ricettivi verso le informazioni diffuse dalle reti satellitari straniere di quanto non lo siano verso la propaganda ufficiale orchestrata dalla televisione “unica” algerina, pur con i suoi tre canali. Il fenomeno ha contribuito allo sviluppo culturale e sociale della popolazione consentendo un “viaggio senza visto” verso i diversi angoli del mondo, che ha portato una maggiore informazione sulle rispettive culture, gli stili di vita, i sistemi politici ed economici così come sui modelli di gestione sociale. Le nuove tecnologie dell’informazione hanno rivelato il vero volto della nostra società e favorito la presa di coscienza della necessità di cambiare lo stato attuale delle cose.
Questa apertura al mondo esterno per mezzo delle nuove tecnologie dell’informazione presenta d’altro canto innegabili aspetti negativi, come la perdita dei valori tradizionali e morali tra i giovani, che sono spesso alla posta delle novità riversate dai canali satellitari stranieri senza tener conto della nostra specificità religiosa e culturale. C’è anzi un vero e proprio timore di veder sparire le culture e le tradizioni locali a vantaggio dei modelli culturali occidentali. In assenza di una produzione culturale locale capace di far fronte al flusso massiccio, o “all’invasione culturale” dell’Occidente, continuiamo a essere consumatori assetati di prodotti culturali stranieri. Le ripercussioni sono percettibili a più livelli. Basta guardare alla lingua di comunicazione oggigiorno utilizzata dai giovani algerini. Una lingua che si compone allo stesso tempo di un mix di arabo e francese, e poi di berbero e anche d’inglese.
La riforma del ruolo dello Stato nell’economia, la rivalorizzazione delle competenze algerine e del sapere, la diversificazione dell’economia algerina, la ripartizione equa delle ricchezze sono, a mio avviso, i principali strumenti per la riuscita del processo di integrazione dell’Algeria nel contesto globale, e il mezzo per permetterle di ricavarsi un posto rispettabile sulla scena internazionale.
Mahmoud Belhimer è vice caporedattore del quotidiano algerino Elkhabar, “primo quotidiano algerino, in lingua araba, con una tiratura di oltre 500.000 copie al giorno”, ruolo che ricopre dal giugno 2002. Partecipa alla gestione e alla dinamizzazione del gruppo di redazione del giornale, oltre a scrivere note sull’ultima pagina, nella rubrica “Moudjeradrai”. Belhimer è titolare di una “licence” in Scienze politiche e relazioni internazionali conseguita presso l’Università di Algeri nel giugno 1991, in seguito ha discusso una tesi di magistero in Scienze politiche, nel luglio 1992. Attualmente sta preparando una tesi di dottorato presso l’Università di Algeri sul tema: “La transition démocratique en Algérie”.
Traduzione di Giuseppe Martella