Afghanistan: la pace è ancora lontana
Matteo Tacconi 20 dicembre 2011

I grandi assenti

Il fatto è che due dei principali pilastri su cui la conferenza avrebbe dovuto reggersi sono venuti a mancare. Il primo riguarda il Pakistan, paese fondamentale nella soluzione della partita afghana. D’altronde si parla sempre di AfPak, a rimarcare che la soluzione del rebus afghano passa anche – forse soprattutto – da Islamabad.

Ebbene, la delegazione pachistana ha disertato il vertice tedesco. Il motivo? Il Pakistan, in questo modo, ha voluto esprimere il suo disappunto per l’incursione aerea effettuata dalla Nato a fine novembre contro una postazione di frontiera, che ha causato la morte di oltre venti militari pachistani. Nei giorni successivi al raid si sono registrate forti proteste popolari e il governo di Islamabad, polemizzando contro l’ultimo dei raid oltre confine dell’Alleanza atlantica (il più importante è quello che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden), ha sospeso il transito di convogli Nato diretti attraverso il suo territorio in Afghanistan. Oltre a questo è stato intimato agli Stati Uniti lo sfratto dalla base aerea di Shamsi, situata nella provincia del Baluchistan, nel sudovest del paese, da dove gli americani hanno spesso fatto levare in volo i loro droni. 

Il secondo flop della conferenza di Bonn è stata l’assenza dei talebani, che, inizialmente prevista, avrebbe dovuto simboleggiare la volontà di compromesso e pacificazione nel paese centro-asiatico. Invece i ribelli non si sono presentati. Né d’altronde Hamid Karzai, il capo dello stato afghano, ha cercato disperatamente di portarli al tavolo.

Gli analisti legano il forfait pachistano a quello talebano. Non a torto. Il fatto è che molti guerriglieri usano le alture situate oltre confine, in Pakistan, come base logistica e rifugio. Molto spesso, si dice, l’intelligence pachistana offre o ha offerto loro copertura. La questione talebana è inscindibile da quella pachistana, questo è chiaro.

Quali soluzioni?

Le relazioni tra Afghanistan e Pakistan non sono mai state semplici. L’Afghanistan fu l’unico paese a opporsi all’ingresso del Pakistan alle Nazioni Unite, a causa dalle rivendicazioni sulle aree pashtun situate oltre la frontiera pakistana. Questo portò Kabul a stringere accordi con Nuova Delhi e a irritare, conseguentemente Islamabad, che con i vicini indiani ha sempre avuto rapporti schizofrenici. La diffidenza tra i due paesi ha generato quattro conflitti (1947, 1965, 1971 e 1999), nonché momenti di grande tensione nucleare (entrambi hanno la bomba atomica).
Quando i sovietici invasero l’Afghanistan, il Pakistan cercò di sfruttare a suo vantaggio la situazione, dando assistenza ai resistenti afghani con l’obiettivo di installare a Kabul una forza di governo amica. Il tentativo fallì, comunque.

In seguito al ritiro dell’Armata Rossa, nel 1989, il Pakistan ha poi sostenuto, senza però esporsi troppo, l’ascesa dai talebani, utile a tenere in pugno l’Afghanistan.

Il resto è storia dei giorni nostri. Dopo l’11 settembre e il crollo del regime talebano i rapporti afghano-pachistani sono rimasti tesi. Kabul continua a rivendicare le aree pashtun situate in Pakistan, quest’ultimo è stretto tra la necessità di “tutelare” i suoi interessi strategici e quella di sostenere lo sforzo anti-terrorismo promosso dagli alleati – ora meno alleati del solito – americani, che hanno sempre prestato sostegno economico e militare. Da qui discende il “doppio gioco”: la lotta al radicalismo islamico sul fronte interno e l’appoggio discreto ai talebani su quello esterno.

Come si può districare questo groviglio? Molti sostengono che Kabul deve fornire assicurazioni chiare a Islamabad, spiegando che i rapporti che ha riannodato con gli indiani – Karzai ha firmato con il governo di Nuova Delhi una partnership strategica – non vanno a scapito del Pakistan e che la questione pashtun, che sta ancora molto a cuore all’élite politica afghana, non è tale da avvelenare le relazioni bilaterali. Islamabad, dal canto suo, dovrebbe invece produrre sforzi più intensi nel controllo e nella gestione delle aree di confine dove stazionano i talebani e rinunciare al doppiogiochismo, in cambio – così si sussurra ultimamente – dell’accettazione, da parte di Kabul, degli interessi geopolitici pachistani e dunque dell’esercizio di un minimo di influenza sulle questioni interne dell’Afghanistan. Che a sua volta ha però tutto il diritto alla sovranità e alla stabilità, incluso il potere di firmare accordi con l’India.

Va da sé che la faccenda è molto, molto complicata. Sarà difficile chiedere alle parti di edulcorare le rispettive esigenze e pretese, abbassando il tasso di intransigenza.

2014

A prescindere dall’assenza del Pakistan e della delegazione talebana, a Bonn s’è discusso comunque del futuro afghano. Non sono stati formalizzati annunci di grande portata, come dieci anni fa. Però s’è inquadrato il futuro prossimo, che fa rima con exit strategy.

Come risaputo il 2014 costituisce la deadline del disimpegno militare dall’Afghanistan. Le truppe americane e gli altri contingenti che prendono parte alla missione Isaf, sotto l’egida della Nato, lasceranno gradualmente il paese, nei prossimi tempi. Ci si chiede cosa potrà succedere, a Kabul, senza più la tutela militare occidentale. Ci si chiede se il governo Karzai potrà reggersi sulle proprie gambe o se i talebani potranno azzardare il regime change (anche se quest’ipotesi sembra esagerata, visto che i ribelli talebani, così come signori della guerra, anche loro attivi sul fronte dell’insorgenza, non hanno tutte quelle risorse militari descritte su certa stampa).

Il tema fondamentale riguarda l’appoggio che gli americani e gli occidentali in generale forniranno all’Afghanistan dopo il 2014. Bisogna assicurare – dicono tutti – assistenza economica, aiuti civili, sostegno morale e politico alle istituzioni centrali di Kabul, cercando al contempo di favorire il deal afghano-pachistano. Ma a questo scopo serve riconquistare la fiducia del Pakistan, ricostruendo una relazione stabile e dando anche a Islamabad garanzie politiche e finanziarie. L’impressione è che siamo soltanto all’inizio.