L’Afghanistan guarda al 2014 con preoccupazione. Cosa succederà quando la quarta fase dalla missione Isaf (International Security Assistance Force) terminerà con il completo passaggio di consegne alle autorità locali? La transizione, secondo quanto annunciato dal presidente Karzai, dovrebbe partire dal prossimo luglio, quando la polizia e l’esercito afghano avranno piena responsabilità su sette aree: le province di Kabul, Panjshir e Bamyan e le città di Herat, Mazar-e Sharif, Mehterlam e Lashkar Gah.
Eppure il paese è ancora lontano dal pieno riconoscimento dell’attuale governo, e a sua volta la macchina dello stato non ha ancora un’autorità tale da garantire sicurezza e stabilità.
Le strutture tradizionali come i consigli locali hanno tuttora un peso fondamentale nell’amministrazione della giustizia. Soprattutto nei villaggi rurali, più di 40mila, le jirga funzionano come meccanismi di consultazione e decisione, con un’assemblea di anziani che si esprime per dirimere conflitti e giudicare delitti. Non è un caso che l’amministrazione Karzai, nel riconoscere la distanza dei cittadini dalle istituzioni centrali, abbia creato nell’ambito del National Solidarity Programme, i Community Development Council, consigli che possano gestire progetti, e relativi fondi, su scala locale con l’aiuto di 20 partners, per la maggior parte Ong straniere.
Il rapporto con le Organizzazioni non governative nazionali ma soprattutto internazionali è un aspetto particolarmente delicato, nell’Afghanistan della “transizione”, perché le tante realtà informali presenti nel paese temono che il dibattito, i progetti e anche i finanziamenti siano canalizzati all’interno di una serie di circuiti limitati. Con il rischio di trascurare tante altre realtà, espressione di una società civile attiva.
Da un’indagine presentata nel febbraio scorso e condotta dal ricercatore e giornalista free lance Giuliano Battiston, nell’ambito del programma a sostegno della società civile promosso dal network italiano Afgana con la collaborazione del Ministero degli Affari Esteri e dell’organizzazione umanitaria Intersos, emerge proprio questa necessità fra i cittadini afghani intervistati: il bisogno di estendere i confini del concetto di società civile, per includere i movimenti di giovani, di donne, i sindacati, le associazioni culturali, i giornalisti e gli avvocati. Dalle risposte ai questionari somministrati in 8 delle 34 province afgane sono emerse realtà che si riuniscono attorno a pubblicazioni come Parkha, a carattere culturale, o a redazioni come quella di Radio Sahar, fondata dalla giovane giornalista Humaira Habib e gestita interamente da donne, o ancora attorno all’Afghanistan Cinema Club di Kabul.
Negli ultimi mesi due appuntamenti importanti hanno visto la partecipazione diretta di una variegata rappresentanza di afghani: la conferenza di Kabul del 30 e 31 marzo e quella di Roma del 24 e 25 maggio, entrambe parte del progetto della rete Afgana.org. Al termine della prima tappa del confronto è stato stilato un documento in sei punti per chiedere al governo Karzai di ammettere la società civile come partner dei processi decisionali, e alla comunità internazionale di cambiare approccio nel mettere a punto gli interventi per il paese.
Una delle conseguenze della presenza in Afghanistan della più numerosa forza di peacekeeping internazionale è stata, nel corso di questi anni, la commistione fra operazioni militari e aiuti allo sviluppo. Nell’ambito della missione Isaf delle Nazioni Unite, dal 2003 sotto il controllo Nato, sono stati creati i PRT, Provincial Reconstruction Team, strutture in cui civili e militari lavorano insieme a progetti di ricostruzione. In questo momento ce ne sono 27, di cui 12 gestiti direttamente dagli Usa e 15 suddivisi fra le nazioni della coalizione. L’Italia ad esempio, responsabile della provincia di Herat come Regional Command West, è a conduzione del PRT della città, oltre che a supporto logistico di altri tre team, e ha sviluppato progetti in ambito sanitario, sociale, economico e di infrastrutture.
Dal 2005 solo il PRT italiano ha investito 29 milioni di euro del Ministero della Difesa, integrati nel 2010 da fondi statunitensi. Secondo il giornalista di Jalalabad, Babrak Miakhel, solo il 30% della popolazione sarebbe soddisfatta di come la comunità internazionale ha speso i fondi destinati all’Afghanistan. Il rischio di un rifornimento di servizi più che di un rafforzamento delle strutture sociali che dovranno sopravvivere alla transizione, è che il processo complessivo di sviluppo di un paese che ha alle spalle trent’anni di guerra non si realizzi, sostituito da una serie di progetti, spesso slegati l’uno dall’altro.
Sono passati 10 anni dalla Conferenza di Bonn e il 5 dicembre prossimo la comunità internazionale dovrà fare il punto sui risultati dell’intervento in Afghanistan. Il timore manifestato proprio in occasione della conferenza di Roma da Najiba Ayubi, rappresentante dello Steering Committee, una rete composta da 60 associazioni afgane, è che ancora una volta la presenza della società civile potrebbe essere confinata ad una mera rappresentanza di facciata, senza voce in capitolo in alcun processo decisionale.
Nel 2001, sotto il patrocinio dell’Onu, quell’evento aveva dato il via ad un processo che in tre anni avrebbe dovuto accompagnare il paese verso la democrazia. Pochi giorni dopo, la Risoluzione 1386 delle Nazioni Unite autorizzava l’invio di una missione internazionale allo scopo di garantire la sicurezza e assistere il “nascente” apparato istituzionale. Era stata riconosciuta la sovranità ad un’autorità provvisoria, e convocata una grande assemblea, la Loya Jirga per guidare il paese fino alle prime elezioni ed elaborare una nuova costituzione per l’Afghanistan.
In vista di Bonn II né il governo di Kabul né la comunità internazionale hanno ancora consultato la società civile, che un decennio dopo continua a chiedere di essere riconosciuta come soggetto capace non solo di avanzare proposte, ma di negoziarle.