Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di Oxygen, la rivista di ENEL
Nel discorso preparato per il Papa, l’affaire Galileo è descritto come “una tragica incomprensione reciproca”, che si può articolare nelle quattro conclusioni principali dei due discorsi:
1 si dice che Galileo non avesse compreso che, in quel tempo, il Copernicanesimo era solo “ipotetico” e che non ne possedeva le prove scientifiche; avrebbe quindi tradito proprio i metodi della scienza moderna della quale è considerato il fondatore;
2 si ritiene inoltre che, in quel tempo, i “teologi” non potessero comprendere correttamente le Scritture;
3 si sostiene che il Cardinale Roberto Bellarmino avesse compreso quanto era alta “la posta in gioco”;
4 quando si venne a conoscenza delle prove scientifiche del Copernicanesimo, la Chiesa si affrettò ad accettarlo e ad ammettere implicitamente che aveva sbagliato a condannarlo.
Non sarà possibile discutere in questa sede tutte e quattro le conclusioni, ma vorrei commentare almeno il primo e il terzo punto.
Si dice che Galileo non avesse capito la differenza tra scienza e filosofia. Che non accettasse il Copernicanesimo come “ipotetico” e, quindi, che non capisse la scienza anche se è stato uno dei suoi fondatori. Si potrebbe discutere molto della caratterizzazione del metodo scientifico e dell’uso che Galileo ne fece. Mi limiterò qui a discutere l’ambiguità insita nel termine “ipotesi” stesso. In questo contesto, esso può essere usato in due modi distintamente diversi: come espediente puramente matematico, utile a prevedere gli eventi celesti, o come tentativo di capire la vera natura dei cieli. Questa fondamentale differenza di significato va vista in relazione all’uso che si fece del termine nell’antichità e fino al medioevo cristiano e dai tempi di Copernico fino a Galileo.
Il miglior esempio, naturalmente, è il caso di Osiander. Nel suo tentativo di salvare Copernico, Osiander, a insaputa dell’autore e andando contro i suoi intenti, scrisse una prefazione al De Revolutionibus per spiegare al lettore che il sistema presentato era da intendersi, come da tradizione nell’astronomia medievale, solo come espediente matematico. Non c’è dubbio che Galileo vedesse invece i propri studi come tentativo di capire la vera natura delle cose. È noto che preferiva essere considerato un filosofo della natura piuttosto che un matematico. Si può discutere del fatto che Galileo fosse convinto di avere prove inconfutabili del Copernicanesimo (dedicando parte del dibattito al significato stesso del termine “prova”, per lui e per noi) ma non si può negare che abbia cercato indizi per dimostrare che corrispondeva alla realtà e non solo a un espediente matematico. Galileo rifiutò che il Copernicanesimo fosse un’ipotesi in questo senso, e cercò di verificarlo in modo sperimentale. Quindi non si può certo accusare di aver tradito proprio il metodo di cui è stato il fondatore.
Secondo il rapporto della Commissione, a differenza della “maggior parte” dei teologi, Bellarmino si era reso conto di quanto fosse alta la posta in gioco: pensava infatti che, di fronte alla possibile prova scientifica che è la Terra a girare intorno al Sole, si sarebbe dovuto “andar con molta consideratione in esplicare” ogni passaggio biblico che sembrasse affermare l’immobilità del nostro pianeta e “più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra”. Le citazioni sono tratte dalla sua Lettera a Foscarini, da cui la Commissione trae due conclusioni che fanno sembrare Bellarmino uno dei teologi più rispettosi della scienza e di maggior apertura mentale. Sembra che Bellarmino sostenga che occorre essere cauti nella lettura dei riferimenti ai fenomeni naturali contenuti nelle sacre scritture, perché potrebbero emergere prove scientifiche contrarie.
Se ciò avviene, occorre reinterpretare le Scritture. Si noti che il primato epistemico è dato alle Scritture. Poiché Galileo non aveva prove inconfutabili del Copernicanesimo, l’interpretazione delle Scritture da parte dei teologi doveva rimanere in piedi, ma poteva sempre essere rivista. Ma questa è una presentazione corretta della posizione di Bellarmino? Il teologo intendeva veramente dire che finché non ci fossero state prove del movimento della Terra intorno al Sole occorreva essere cauti nell’interpretare le Scritture? No, quel che dice davvero è che se un giorno tali prove fossero emerse, allora i teologi avrebbero dovuto adottare una certa cautela nell’interpretare le Scritture. Se avesse davvero creduto nella possibilità di una dimostrazione del Copernicanesimo, perché non avrebbe suggerito di non prendere posizione, come avevano fatto i Cardinali Barberini e Caetani? E perché ha votato a favore dell’ingiunzione di Galileo nel 1616, che gli vietava di continuare la ricerca sul Copernicanesimo? A Galileo fu vietato proprio di cercare le dimostrazioni scientifiche che, secondo Bellarmino, avrebbero costretto i teologi a reinterpretare le Scritture.
Conclusioni
Alla fondazione e durante i lavori della commissione, il caso di Galileo fu spesso descritto come “una sorta di mito” nato in seguito a “una tragica incomprensione reciproca”. Ho argomentato alcune delle incomprensioni che continuano a esistere. Il “mito” continua? I miti si basano sempre su avvenimenti reali. Nel caso Galileo i fatti storici sono che l’ulteriore ricerca sul sistema copernicano fu proibita dal Decreto del 1616 e poi condannata nel 1633 dagli organi ufficiali della Chiesa con l’approvazione dei Pontefici regnanti. Questa, e non “una tragica incomprensione”, diede vita al “mito”. Galileo era un rinomato scienziato mondiale: con la pubblicazione del Sidereus Nuncius fu riconosciuto come pioniere della scienza moderna. Aveva istigato ancora le controversie tra tolemaici e copernicani. L’evidenza dell’osservazione sfidava sempre di più la filosofia naturale aristotelica, che era il fondamento del geocentrismo. Anche qualora il Copernicanesimo venisse alla fine smentito, l’evidenza scientifica doveva essere comunque perseguita. A uno scienziato famoso come Galileo in quelle circostanze doveva essere permesso di continuare la sua ricerca, ma invece gli fu proibito ufficialmente dalla Chiesa. Sta proprio qui la tragedia.
Astronomo e gesuita, George Coyne è stato il direttore della Specola Vaticana dal 1978 fino al 2006 ed è tuttora a capo del gruppo di ricercatori dell’osservatorio attivi presso l’Università dell’Arizona a Tucson.