L’atteggiamento della Confederazione Elvetica verso l’esterno, la cui sintesi si esplicita nell’esito del referendum tenutosi lo scorso 9 febbraio – referendum ampiamente promosso dalla destra nazional-conservatrice – attraverso cui i cittadini sono stati chiamati a pronunciarsi sulle delicate questioni relative alla riconferma degli Accordi Bilaterali con l’Unione Europea e all’apertura del Paese a Romania e Bulgaria, costituisce un “buon esempio” su cui riflettere. In primo luogo perché la Svizzera è, tra gli stati moderni, il solo ad essere governato tramite democrazia diretta e dunque attraverso un coinvolgimento diretto e costante dei cittadini, chiamati non solo ad esprimere le loro preferenze ma, in taluni casi, a legiferare.
In secondo luogo perché rappresenta un buon esempio del prevalere della “ragione economica”, intesa come “sviluppo economico”, sulle altre. In terzo luogo perché, sebbene la Svizzera non sia un Paese Membro dell’UE, sembra, per taluni aspetti specifici, perseguire più degli stessi Paesi Membri quegli obiettivi di crescita economica sostenibile, maggiore occupazione e coesione sociale, che sono alla base della Strategia di Lisbona. Oggetto del referendum, che afferisce al tema della libera circolazione delle persone nell’ambito degli accordi bilaterali che regolano i rapporti tra Confederazione e UE, sono state due questioni distinte: la riconduzione degli accordi sulla libera circolazione (Bilaterali I) e la loro estensione a Bulgaria e Romania, Paesi entrati nell’Unione Europea il 1° gennaio 2007.
Il 59,6 dei votanti si è espresso in maniera favorevole, appoggiato da una consistente rappresentanza del mondo economico e imprenditoriale, in virtù dell’importante beneficio apportato al Paese dall’apertura del mercato del lavoro elvetico ai cittadini dell’UE e viceversa. Un esito diverso avrebbe innescato la cosiddetta ‘clausola ghigliottina’, ovvero l’annullamento degli Accordi Bilaterali I e II (libera circolazione delle persone, commercio, agricoltura, trasporti aerei, trasporti terrestri, appalti pubblici, ricerca, trattato di Schengen e Dublino, fiscalità del risparmio, ecc.) a causa della loro inscindibilità giuridica. Contrari solo quattro dei ventisei cantoni o semi-cantoni, fra cui il Ticino, il che può in parte essere spiegato dal fatto che in tale cantone si registra un afflusso trasmigratorio giornaliero di enormi proporzioni: circa 40.000 cittadini italiani attraversano quotidianamente il confine, immettendo la propria forza-lavoro in un mercato che – a quanto sembra – la percepisce in termini di concorrenza.
In ogni caso, i rapporti bilaterali fra Svizzera e UE sono articolati in modo che non vi sia simultaneità fra inclusione di nuovi Stati Membri nell’UE e libero accesso di questi ultimi alla Confederazione. La procedura prevede che le modalità di estensione (restrizioni, periodi transitori) siano regolate da un protocollo aggiuntivo, lo stesso che ha fatto seguito, nel 2004, all’annessione di dieci nuovi Stati. Per questi ultimi, la Confederazione ha previsto un regime momentaneo in vigore fino al 2011, approvato tramite referendum popolare nel 2005. Ciò che va sottolineato è che il Paese, nel fare le sue scelte, si è dimostrato consapevole del fatto che una rinegoziazione ex-novo degli accordi con Bruxelles avrebbe inevitabilmente nuociuto alle industrie elvetiche e avrebbe condotto ad una perdita di competitività, considerato che due terzi delle esportazioni svizzere vanno all’UE. E i numeri che testimoniano la forte interdipendenza fra Svizzera e UE sono davvero ragguardevoli: secondo uno studio condotto da Eurostat, più di 200.000 persone attraversano ogni giorno i confini della Svizzera per ragioni di lavoro, e il volume dell’interscambio commerciale Svizzera-UE ammonta a più di un miliardo di euro al giorno.
Sul fronte specifico del mercato del lavoro e della forza lavoro immessa dagli immigrati, è significativo che già nel 2007 vertici governativi e rappresentanti del mondo economico elvetico avessero rilevato l’importanza della libera circolazione delle persone per la crescita del Paese, riconoscendo che era stato anche grazie alla disponibilità di forza lavoro straniera che si era raggiunto un tasso di crescita così elevato, parliamo di un tasso di crescita del 2,8%. E anche nel 2008, nonostante la flessione dovuta alla crisi economica globale, il tasso è rimasto comunque a livelli elevati, intorno all’1,8%. E’ stato altresì sottolineato che, data la diminuzione della forza lavoro svizzera, dovuta a fattori demografici, negli anni a venire la libera circolazione delle persone potrebbe acquisire un’importanza sempre più crescente per l’economia elvetica.
Dunque una reale valorizzazione del capitale umano, da ovunque esso provenga: caratteristica della forza lavoro immessa in Svizzera è comunque quella di essere altamente qualificata e tale da creare valore aggiunto tanto in termini economici quanto in termini di accrescimento e trasferimento di conoscenza. I dati forniti dalle analisi condotte dalla Swiss Business Federation nel 2008 evidenziano come la forza lavoro qualificata apportata dagli immigrati sia ad oggi ancora insufficiente rispetto alle esigenze dell’economia svizzera, ed evidenziano in particolare il fatto che tale forza lavoro è complementare e non sostitutiva della forza lavoro elvetica.
In un contesto come quello attuale, di crisi economica globale, una maggiore apertura verso l’esterno potrebbe risultare una via per un reale rinnovamento, uno strumento con cui affrontare le sfide che un mondo globalizzato pone. Favorire la circolazione delle persone e dunque il capitale intellettuale, in una maniera positiva ossia di accrescimento reciproco e di accrescimento complessivo, potrebbe aiutare questa nostra Europa, e la società nel suo complesso, ad individuare nuove strade da percorrere. Il caso svizzero ne è forse un esempio.
Emanuela Scridel è Economista – Esperto in Strategie Internazionali e U.E.