Quest’anno la Fiera del libro di Torino ha deciso di rendere omaggio a Israele per il sessantesimo anniversario della nascita dello Stato. Sono stati invitati, tra gli altri, scrittori come David Grossman, A. B. Yehoshua, Amos Oz e Etgar Keret. Anche il Salone del libro di Parigi ha invitato Israele come ospite d’onore. Cosa ne pensa di queste decisioni, sulle quali è in corso un acceso dibattito?
Credo che in entrambi i casi sia la giusta decisione. La storia di Israele è stata notevole, spesso tumultuosa, a volte infelice, ma tuttavia notevole. Le sue radici con l’Europa sono profonde e importanti. Israele è stato fondato in risposta a secoli di persecuzione, e per questo merita solidarietà. Non è la stessa cosa che appoggiare la politica israeliana nella sua totalità, come provare pietà per le sventure dei palestinesi non dovrebbe essere confuso con la difesa di ogni azione intrapresa da un palestinese. Non sono solo l’Europa e Israele a trarre vantaggio, quando uno Stato ebraico riceve degli onori in queste mostre del libro. Anche il processo di pace del Medio Oriente ne trae vantaggio. Israele possiede una intensa cultura letteraria e non ha alcuna importanza che molti degli autori israeliani, che sono stati invitati, sono sostenitori della pace e della riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Sfortunatamente è in corso in questi giorni una campagna, per delegittimare lo Stato ebraico, intrapresa da alcune parti del mondo intellettuale occidentale, specie da alcune parti della sinistra. La campagna insiste in questo errore, spesso è calunniosa, e tradisce il meglio degli ideali della sinistra e della democrazia.
Dico questo, anzi vorrei insistere su questo punto, come americano leftist che per anni si è opposto con in fatti a molte delle politiche di Israele, specie gli insediamenti. Quando questi militanti anti-israeliani fischiano ai “sionisti”, mi ricordano i neoconservatori americani che fischiavano ai leftist. Il fischio di per sé dovrebbe dirti che qualcosa non va. E noti che in Inghilterra i tentativi di boicottare le università israeliane furono bloccati, dal momento che contravvenivano alle leggi antidiscriminazione. Da un punto di vista politico, quei tentativi erano anche ridicoli. Le università israeliane sono state i bastioni più saldi del sentimento per la pace. Si dovrebbe celebrare il sessantesimo anniversario di Israele insieme alla ricerca della pace tra israeliani e palestinesi. Potendo dire una sola cosa agli israeliani – e specialmente ai loro pacifisti della letteratura – che un Stato ebraico è l’incarnazione del diavolo, che gli israeliani non dovrebbero avere alcun posto d’onore in alcun luogo e alcuna circostanza, che gli israeliani sono il peccato originale del mondo, che solo gli ebrei non hanno alcuna pretesa legittima al diritto di autodeterminazione, non ci si aspetti che gli israeliani ti ascoltino, se per esempio si sottolinea loro i compromessi. Se il tuo vero scopo è la non esistenza dello Stato di Israele, nemmeno loro di staranno ad ascoltare. E non dovrebbero. Se il tuo vero scopo è lo stabilimento della pace su di un giusto accordo, per esempio l’idea di due Stati – israeliano e palestinese – in quel caso dovrebbero stare ad ascoltarti.
In un recente scambio di email Martha Nussbaum, un’autentica voce moderata e liberale, ha affermato di essere in disaccordo con la decisione di invitare solo gli scrittori israeliani alle fiere di Torino e Parigi. “Non capisco il perché” scrive, aggiungendo: “Gli accademici palestinesi hanno bisogno di tutto l’aiuto che possono prendere, date le pessime condizioni delle loro università, e per questo sono assolutamente favorevole a che siano invitati a ogni conferenza. No, penso ancora che non sia una istanza ideologica; è come dire, non si facciano conferenze solo per bianchi, o soltanto per uomini. Immaginando che ci siano persone competenti nell’altro gruppo, come io so che ci sono in Palestina, è solo una richiesta per una pari integrazione.” Tariq Ali ha ugualmente chiesto: “Perché la Fiera del libro di Torino non ha invitato i palestinesi in numero uguale? Trenta scrittori israeliani e trenta palestinesi avrebbero potuto essere visti come un gesto concreto di pace, e avrebbe potuto svolgersi un dibattito positivo”. Considera tale richiesta legittima, o rappresenta un eccesso di correttezza politica?
Nutro grande stima per il lavoro di Martha Nussbaum – sono contento di dire che alcune sue cose possono essere lette su Dissent, che contribuisco a dirigere – ma in questo caso sono in profondo disaccordo con il suo approccio. Prende fuori contesto la polemica di Torino: una campagna oltre confine per delegittimare uno Stato e applicare a questo Stato princìpi che non sono applicati a nessun altro. Una mostra del libro dovrebbe essere in grado di rendere omaggio a Israele come a qualsiasi altro Stato. Ovvio che non c’è alcuna ragione per la quale studiosi palestinesi – o, in quel caso, arabo-israeliani o ebrei di Israele – non dovrebbero essere invitati a una mostra del libro in onore di Israele, discutendo di letteratura israeliana e anche di politiche israeliane. Ma ci sono tutte le ragioni per avversare una campagna che mira a inseguire ovunque Israele e gli Israeliani, e questo è il caso. Ci sono tanti posti nel mondo dove le università lottano per sopravvivere in situazioni di cattiva politica, e ognuna dovrebbe essere aiutata, ma l’analogia di Nussbaum di invitare solo bianchi o solo uomini non sta in piedi e, dal mio punto di vista, si presta a quei tentativi in corso di dipingere Israele come uno “Stato di apartheid”, che è anche una falsa analogia. Il Paese ha elezioni democratiche alle quali ogni cittadino, ebreo o arabo, può votare, e un parlamento in cui sia gli ebrei che gli arabi compiono il proprio dovere, così come nel governo. In ogni caso, Hamas costituisce una minaccia per la vita intellettuale e accademica di Israele più di quanto le mostre del libro, in Europa, che rendono omaggio a Israele invitando esponenti della letteratura che, come può capitare, si sono opposti a molte delle scelte politiche israeliane. Nussbaum ha preso una posizione di tutto rispetto sulla questione del boicottaggio in Inghilterra (l’abbiamo pubblicata su Dissent) e credo che sia gli israeliani che i palestinesi dovrebbero prestarle ascolto e discutere con lei.
Altra questione è Tariq Ali. La sua posizione rappresenta il classico caso di ciò che io definisco “la sinistra che non impara”, e sembra piuttosto simile a quelle parti della sinistra estrema italiana, per quanto ne so. Nel caso di Ali, si tratta di trotskismo riciclato. Ho letto il suo articolo su Torino. Per prima cosa, dice di avere “sempre” sostenuto il diritto di Israele a esistere, ma poi subito afferma che Israele dovrebbe essere sostituito con un “solo Stato di Israele e Palestina”. Scrive Ali: “Questa è l’unica soluzione a lungo termine”, pur ammettendo che forse è utopistica. Siamo seri: questo vuol dire che Israele non dovrebbe esistere, è questa è la posizione della sinistra fondamentalista piuttosto che della sinistra progressista. Si tolgano di mezzo tutti i giri di parole da queste affermazioni, e si avrebbe la vera ragione della sua proposta per la Fiera del libro di Torino. Si potrebbe perdonare gli israeliani rispondendo con una osservazione fatta una volta dal defunto Abba Eban, pacifico ministro degli esteri israeliano: il suicidio dello Stato di Israele non è un dovere internazionale.
L’articolo di Ali dipinge la nascita di Israele come niente di più che la storia di una espulsione, di un assassinio, di una violenza. Ma una israeliana di sinistra potrebbe fornire una versione diversa. Ti direbbe che l’indipendenza di Israele è stata dichiarata dal leader di un partito socialista, David Ben-Gurion; che è stata quattro anni dopo lo sterminio di un terzo degli ebrei; che durante lo sterminio il leader del movimento nazionalista palestinese, Hajj Ami el-Husseini, si trovava a Berlino a tifare per il Terzo Reich. Ti direbbe che quando l’Onu ha votato per dividere la Palestina tra arabi e israeliani, nel 1947, gli odiosi sionisti accettarono il compromesso e il mondo arabo lo rifiutò. Potrebbe dirti che sessanta anni fa, un giorno dopo la dichiarazione d’indipendenza di Israele, il paese è stato invaso da mezza dozzina di truppe della Lega araba, il cui capo, Azzam Pasha, dichiarò: “Questa sarà una guerra di sterminio e un massacro di grande importanza, di cui si parlerà come del massacro dei Mongoli e delle Crociate”. Poi, certo, gli israeliani contrastarono l’attacco e li si può perdonare l’averlo fatto. Potrebbe inoltre dirti che accaddero cose orribili nella guerra che seguì; potrebbe ammettere che le mani di Israele non erano del tutto pulite, ma aggiungerebbe che sarebbe stato preferibile ascoltare una simile ammissione da una pacifista araba.
E potrebbe dire a Tariq Ali: “Va bene, forse seguiremo il tuo avviso. Rinunceremo a Israele per uno ‘Stato composto da Israele e Palestina’ e chiedere anche aiuto all’Europa per realizzare questa utopia. Ma, per favore, scusaci se siamo un po’ scettici dopo questi dieci anni di guerra, e a causa del passato dell’Occidente, quando si tratta di bloccare il genocidio nei nostri tempi. La strage dei musulmani in Bosnia, per esempio. La strage in Darfur degli africani di colore, per esempio. Perciò tenta di convincerci un po’ di più, prima che creiamo uno ‘Stato di Israele e Palestina’. Inizia convincendo indiani e pakistani a rinunciare ai loro paesi e creare uno ‘Stato di India e Pakistan’. E insisti a che sia concesso ai dieci, dodici milioni di tedeschi, che hanno perso la loro case alla fine della Seconda guerra mondiale, il “diritto al ritorno” in Polonia, nella Repubblica ceca, ovunque. Ma vediamo come funzionano questi tentativi utopici. Se una mostra del libro nel frattempo rende omaggio alla Polonia, pretendi che ci sia uno stesso numero di autori polacchi e tedeschi. Se una mostra del libro rende omaggio alla Palestina, segnati sul libro nero se non invita un israeliano – un sionista! – per ogni autore palestinese.
Tariq Ramadan, il controverso autore musulmano, ha chiesto di boicottare la Mostra del libro di Torino e il Salone del libro di Parigi. Ha affermato che “non possiamo riconoscere la legittimità di celebrare lo Stato di Israele, che lascia lungo la propria strada morte e desolazione”. Ha detto: “Il punto non è la questione islamica, o araba, ma è una questione di coscienza del mondo”. Ha chiarito le sue riflessioni dicendo che la campagna di boicottaggio era “pensata come una critica all’ ‘ospite d’onore’. Non è un tentativo di impedire agli autori israeliani di partecipare o di esprimersi. Non è un rifiuto di sostenere un dibattito”. Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, ha risposto affermando che la posizione di Ramadan ha di fatto negato a Israele “il diritto di espressione” e ha rappresentato una “linea fondamentalista” che stava “sfortunatamente invadendo l’Europa, corrompendo molte persone, specialmente a sinistra”. Come considera, in questo contesto, il punto di vista di Ramadan e il boicottaggio?
Ho l’impressione che troppe persone, a sinistra, se la intendano con Ramadan. Mi ricorda un po’ troppo i flirt con lo stalinismo, settanta anni fa. Certo, non è proprio la stessa cosa. L’ambiguità veniva allora coperta dalla parola “dialettica”. Ma gli stalinisti avevano sempre qualcuno che poteva “spiegare” nella maniera giusta le cose agli intellettuali, che dimostravano di essere dei creduloni quando pensavano di assumere delle posizioni critiche sulle loro società. Infatti le loro società (come le nostre, oggi) avevano bisogno di molta critica, ma su basi migliori. Chi ha visto bene, come George Orwell, o il socialista americano Norman Thomas, fu duramente punito per non essere un “vero” radicale. Dal mio punto di vista, la sinistra avrebbe dovuto essere dalla parte dei dissidenti nel blocco sovietico, e non dalla parte degli acrobati dell’ideologia leninista. Oggi la sinistra dovrebbe essere dalla parte dei dissidenti nel mondo musulmano, difendendo allo stesso tempo i diritti civili dei musulmani che vivono nelle loro società (o in qualsiasi altro posto sia necessario, per quanto riguarda ciò). Si guardi intorno, oggi, e troverà che al posto del vecchio stalinismo, che in sé era una sorta di fondamentalismo di sinistra, c’è un feticismo della “diversità”.
Invece di usare la diversità come l’utile strumento di analisi che dovrebbe essere, essa è diventata la base per una apologetica, per farsi delle illusioni. Invece di essere una vera arma contro il pregiudizio e a favore del pluralismo, ha reso le persone sensibili al linguaggio ambiguo. Credo sia necessario svelare ogni forma di fondamentalismo e di apologetica del fondamentalismo. Ecco un esempio israeliano. Dal 1967 gli estremisti israeliani sono stati a favore delle colonie ebree nei territori occupati. Hanno spesso insistito sul fatto che era per ragioni di “sicurezza” che le loro opinioni provenivano dal fondamentalismo, di tipo nazionalista o religioso. Ma viene da sé che gli eserciti forniscono sicurezza, non le colonie di fanatici. Così le argomentazioni sull’autodifesa di Israele furono viziate da questo discorso ambiguo. Alcuni governi di Israele hanno infine parlato di una “moratoria” del periodo delle colonie. Lo Stato di Israele è legittimo tanto quanto ogni altro Stato, le colonie degli estremisti religiosi e nazionalisti, oltre i confini del 1967, non lo sono.
Ma adesso consideri le note posizioni ellittiche di Ramadan sulla lapidazione femminile. Se guarda a questi siti, troverà la loro adesione a una petizione in favore di una “moratoria” per la lapidazione femminile, nei paesi musulmani, per determinati comportamenti. Questo, spiega lui, affinché un dibattito possa avere inizio. Una “moratoria”? Per iniziare un dibattito sulla legittimazione religiosa della lapidazione femminile? Immaginiamo che qualcuno prenda delle citazioni di Ramadan dalla domanda che mi ha rivolto, ma operi dei piccoli cambiamenti: “Non possiamo ammettere la legittimità di celebrare l’Islam, che lascia morte e desolazione lungo la propria strada – come l’undici settembre e la lapidazione femminile. L’Islam non può avere uno statuto di onorabilità ma, dal momento che siamo liberali, concediamo ai musulmani la libertà di espressione”. Ramadan potrebbe denunciare chi avesse pronunciato parole simili come un viscido, ambiguo bigotto, e avrebbe tutti i diritti per farlo. Ma che diremo quando una persone si rifiuta di distinguere tra lo Stato di Israele (che è stato la risposta a secoli di persecuzione) dalle diverse linee politiche dei governi israeliani, e poi aggiunge: “Allora, ci rifiutiamo di garantire a questo paese ogni rispettabile posto nel mondo delle nazioni, ma di certo concediamo agli scrittori israeliani la libertà di parola”. Domanderei: “Perché ti preoccupi? Perché vuoi dare loro la libertà di parola? Puoi ‘conversare’, spiegando loro in che modo i loro paesi ruotino attorno a un’asse diabolica?” Il signor Ramadan ha pubblicato una petizione per richiedere una moratoria sulle relazioni col Sudan, e iniziare un dibattito sulla legittimità religiosa di quanto sta accadendo in Darfur. Segnerà sulla lista nera qualunque mostra del libro che inviti Stati dalla Lega araba, della quale il Sudan è membro?
Lo scrittore franco marocchino Tahar Ben Jelloun si è opposto al boicottaggio, spiegando che questo avrebbe “fornito allo Stato di Israele le basi per presentarsi non come occupante dei territori palestinesi, ma come vittima”. Ha anche detto che “Boicottare la prossima Mostra del libro di Torino non aprirà la strada alla pace e alla riconciliazione”. Aggiunge: “Critica le politiche di uno Stato, critica un romanzo per i suoi meriti letterari”. Uno tra i migliori argomenti, nell’intero dibattito su Torino, è che la letteratura e la politica sono due sfere separate, che le critiche delle due aree dovrebbero essere distinte. Ma se qualcuno obietta che l’invito rivolto dall’Europa agli scrittori israeliani di celebrare il sessantesimo anniversario dello Stato d’Israele non può essere per definizione un fatto politicamente neutro?
Penso che il rifiuto di Ben Jelloun di boicottare dovrebbe essere salutato, e io per primo spero che vada avanti e visiti Israele, non solo per una lezione sulla letteratura francese e araba, ma per presentare le sue opinioni sulle politiche di Israele in un dialogo pubblico, con intellettuali ebrei e arabo-israeliani. Vorrei esortare Israele ad ascoltarlo bene, specie per quanto ha da dire sui palestinesi. Ci sono i presupposti per un dialogo onesto e impegnativo, cosa che non vedo in Ramadan o Ali. E non sarebbe bello se lui invitasse li scrittori israeliani a scambi di questo genere con gli scrittori arabi e arabo europei, a Parigi e in Marocco? Per la verità, non divido a cuor leggero letteratura e politica. La buona letteratura deve dire cose importanti mettendo assieme gli aspetti della vita umana. La politica è di certo uno di questi aspetti. Esistono una buona e una cattiva letteratura politica; è cattiva quando è tendenziosa. La relazione tra politica e cultura è complicata. Ci sono grandi romanzi animati da cattive idee e cattivi romanzi animati da buone idee. Suppongo che sia necessario convogliare nei romanzi le diverse idee insieme alle qualità letterarie, e vedere la loro interazione. Dunque, non è politicamente neutro invitare gli scrittori israeliani così come boicottarli non è solo una questione di “coscienza”. Se, come diceva Sartre, si deve operare una scelta: lo Stato di Israele ha come gli altri Stati lo stesso diritto all’esistenza, o come nessun altro è oggetto di demonizzazione? (E, aggiungerei, quasi come gli ebrei furono una volta distinti in Europa.) Se si pensa che Israele abbia diritto all’esistenza (intendo con i confini del 1967), allora è del tutto legittimo criticare questa o quella linea politica di un governo (e non è affatto antisemitismo fare questo.) Altra questione è se lo scopo è davvero l’abolizione di Israele, piuttosto che un vero compromesso tra israeliani e palestinesi per porre fine a questo lungo e doloroso conflitto.
In un blog italiano neonazista è stata pubblicata una lista nera proprio nel mezzo del dibattito su Torino. C’erano 162 nomi, catalogati come ebrei o sostenitori di ebrei. Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo, ha replicato con un grande allarme sull’aumento dell’antisemitismo e della xenofobia, sollevando lo spettro di un’altra “Notte dei cristalli”. Elan Steinberg, direttore esecutivo del Congresso ebraico mondiale, ha denunciato un “Asse del Male” in Italia, citando la decisione di Benedetto XVI di ripristinare le preghiere, risalenti al Concilio di Trento, che invitano gli ebrei ad accettare Gesù. Concorda con queste decisioni? Si tratta di nuove, segrete e dannose forme di antisemitismo che hanno contagiato anche la sinistra? Un suo recente articolo, su Dissent, sembra suggerirlo.
Penso che l’antisemitismo sia oggi un problema reale. Non lo sopravvaluterei, ma non lo sottovaluterei, non escluso il suo potenziale. Dubito che ci sarà una “Notte dei cristalli” nell’Europa occidentale ma la storia, alle volte, gioca dei brutti tiri. Dobbiamo essere onesti riguardo un discorso fondamentale. Che differenza c’è tra una lista nera, come quella italiana, e le insinuazioni di cospirazione su di una “lobby ebraica” che ha in mano Washington, o la frottola sulla “lobby ebraica” che comanda il mondo della finanza? Oltre al totale smascheramento di un tale punto di vista, penso che sia necessaria un’ampia e duplice risposta, una risposta che è universalista e particolare. L’aspetto universalista: rafforzare e irrobustire i valori universali e le istituzioni della democrazia liberale puntando sulla tolleranza, l’egualitarismo, l’umanesimo democratico e la cittadinanza.
Sono un socialdemocratico (o mi si può dire socialista, non sono un feticista delle etichette) e per questo penso che si debba parlare della disuguaglianza sociale ed economica. Vorrei porre l’accento sull’importanza di un ambito pubblico laico. Mi preoccupa il fatto che l’aggressiva iniezione di religione nella sfera pubblica, ultimamente, promuova l’intolleranza. Abbiamo visto alcuni effetti dannosi negli Stati Uniti, grazie alla libertà di culto. Se il papa vuole promuovere l’idea che gli ebrei siano mancanti, dovrebbe essere preparato ad un esame attento e a spiegare in pubblico le sue convinzioni, fino alle loro radici. Onestamente, dovrebbe essere più accorto nell’evitare simili argomentazioni e rivendicazioni teologiche. Penso che sarebbe meglio promuovere il reciproco rispetto e garantire la separazione tra Stato e religione. Ammiro la tradizione francese della laïcité, anche se alle volte va un po’ oltre (come nel caso della recente legge sul velo).
Essere universalista non vuol dire negare l’importanza del particolarismo, che è un semplice dato di fatto della vita umana. Credo nel cosmopolitismo radicato, non nel cosmopolitismo integrante. Non è facile bilanciare le richieste di universalismo e particolarismo, o individuare la loro intersezione e interazione. Nondimeno dobbiamo ricordare che è riduttivo, e anche dannoso, affermare che ogni problema debba essere risolto in un solo modo, da una sola formula. Il pregiudizio ai danni dei musulmani non è campato in aria; è una questione di discriminazione ai danni dei musulmani proprio perché sono musulmani. Se fossi europeo, sosterrei programmi di azioni positive a favore dei musulmani poveri e delle minoranze immigranti. Per reagire alle ineguaglianze di razza e sesso, sostengo programmi intelligenti di azioni positive negli Stati Uniti. L’uguaglianza di fronte alla legge è insufficiente. Non puoi dire alle persone: “Siete tutti uguali per la legge, e presto gli effetti di secoli di discriminazione saranno tolti di mezzo. L’antisemitismo ha marchiato gli ebrei in quanto ebrei, non come astrazioni; problemi specifici richiedono soluzioni specifiche. Vedo la creazione di Israele anche come un tipo di azione affermativa, una risposta ai secoli di persecuzione.
Il mio articolo sul numero invernale di Dissent, intitolato L’Antisemitismo e la sinistra che non impara, ha a che fare proprio con questo tipo di problema. Tra il 1920 e il 1930 parte della sinistra disse agli ebrei che una rivoluzione mondiale era all’orizzonte, e che avrebbe risolto ogni problema, incluso l’antisemitismo. Era un cattivo consiglio, ma alcune persone non riescono ancora a toglierlo dai loro sistemi. I fondatori di Israele – di fatto appartenevano alla sinistra sionista – insistevano nell’essere allo stesso tempo sia universalisti che particolaristi. Non avevano sempre successo, a volte ne erano distanti, ma dominarono Israele nei suoi primi decenni. La storica sostituzione del loro movimento, il vecchio movimento laburista socialdemocratico, con i nazionalisti di destra (Begin, Netanyahu), e i miti sul loro conto, è una causa importante dei guai di Israele. Ma è una questione separata dall’antisionismo di sinistra in Europa, che ha una storia più lunga. Oggi si sente dire dalle persone: “Sono antisionista ma non antisemita”. All’inizio, antisionismo e antisemitismo non erano la stessa cosa. Il problema è che in questi giorni c’è una enorme, considerevole e fastidiosa sovrapposizione, e frasi come questa nascondono spesso modelli mentali che riproducono il tradizionale discorso antisemita (in maniera conscia o meno) o mascherano una concreta richiesta di abolire lo Stato ebraico. Se si criticano le colonie israeliane nei territori occupati (come faccio io), è un conto. Se si pensa che Hamas non possa fare nulla che non sia colpa di un israeliano, è un altro conto. E se si incolpa lo Stato di Israele ad ogni circostanza, invece di criticare le politiche di Israele quando sono sbagliate ed elogiarle quando sono giuste, non ci si deve meravigliare se anche il generale antisemitismo si intensifica, come per esempio in Europa.
La protesta sociale è spesso collegata alle questioni della laicità e della religione. Sono casi nei quali artisti e scrittori hanno colpito con irriverenza la religione, specie l’Islam. Ci sono stati anche dei morti. L’Italia ha una situazione simile, anche se meno violenta, con la Chiesa cattolica. Recentemente, in Italia, è caduto un governo di sinistra, e la cosa è stata affrettata dalla decisione del papa di non parlare a un evento presso la più importante università di Roma – era stato invitato all’inaugurazione dell’anno accademico – a causa delle proteste, da parte della facoltà e degli studenti, contro di lui. I politici e i giornalisti di tutti gli orientamenti politici si sono precipitati nell’esprimere solidarietà a Benedetto XVI. La religione dovrebbe essere immune dalla critica? Dovrebbe esistere il diritto di parola senza incorrere nella protesta, o si deve accettare la critica, una volta entrati nella sfera pubblica?
Non posso fare un commento specifico sugli eventi italiani, dal momento che non sono un esperto in fatti italiani. Ma, in via generale, credo che nessuna persona e nessuna dottrina, se entrano nella sfera pubblica e democratica, possano essere immuni da una critica pubblica. Una libera cultura pubblica poggia sui suoi partecipanti. Delle salde libertà civili ne sono la premessa. Questo significa che ognuno deve avere il diritto a essere ascoltato, ma non può voler dire che nessuno possa avversare le tue opinioni.
L’irriverenza, e soprattutto la satira politica, godono di ottima salute in una società libera e democratica. L’insulto, gratuito e frutto del pregiudizio, no. Non è sempre facile fare una distinzione tra loro, e ci sono zone grigie. Dopo tutto, le vignette satiriche sono tali per definizione, e i credenti spesso sono offesi da qualsiasi problema posto al loro sistema di fede. Forse, l’ideale sarebbe che chi fa satira politica si preoccupi un po’ della distinzione tra l’irriverenza e l’insulto gratuito e per i credenti, di qualsiasi confessione, sarebbe meglio abituarsi a cosa davvero significhi una società aperta, specie se vogliono affermare le loro religioni nella sfera pubblica. In una società libera, devi sopportare ciò che maggiormente non ti piace, devi ascoltare cose che pensi non dovrebbero essere dette e, in alcuni casi infatti, non lo dovrebbero. Ma devi sopportarlo. Alla stessa maniera i due Tariq, Ramadan e Ali, possono sentirsi offesi dall’omaggio della Mostra del libro a Israele, ma devono farsene una ragione. Hanno diritto a stilare il loro Indice e pretendere di metterci Israele ma, sinceramente, quando si tratta di Israele, entrambi mi sembrano piuttosto fondamentalisti, il primo religioso e l’altro di sinistra. Dovranno sopportare le critiche della sinistra per i loro sforzi di demonizzare Israele.
Quaranta anni fa, nel 1968, i movimenti rivoluzionari romantici si sono diffusi tra i campus e le università di Europa e Stati Uniti. Abbiamo bisogno di un “altro ‘68”, oggi, con la sua volontà di utopia e cambiamento? O semplicemente siamo bloccati in un realismo conservatore, ora che i sistemi marxista e socialista si sono dissolti, e in così tanti appaiono pacificati dal consumismo?
Voglio ben sperare che non siamo bloccati nel realismo, o idealismo, conservatore, per quanto riguarda questo caso. Dopo otto anni di amministrazione Bush, mi piacerebbe liberarmi di entrambi. Si può guardare al ’68 in molti modi. Se si guarda all’anno, di per sé è stato proprio un disastro. Lo abbiamo iniziato, negli Stati Uniti, con Lyndon Johnson come presidente, e lo abbiamo chiuso con Richard Nixon. Nel frattempo, furono uccisi Martin Luther King e Robert F. Kennedy, le forze pacifiste furono sconfitte al congresso dei democratici, ed è stato sparso del sangue per le strade di Chicago. I vietnamiti e gli americani hanno continuato a morire in una guerra assurda nel Sud-Est asiatico. A Parigi, furono sollevate e abbattute le barricate. Infine, i gollisti erano saldamente al potere, e vinsero le elezioni nazionali, mentre i partiti di sinistra persero sostegno. I carri armati sovietici posero fine alle grandi speranze della primavera di Praga. Quali conseguenze ebbe il 1968 nella politica americana? Uno spostamento, verso la destra, per quattro decenni.
Appartengo a quella generazione di sinistra che si formò nell’intimo grazie al 1968, anche se faccio parte della sua fascia più giovane. Avevo sedici anni, ero al liceo, ed ero coinvolto principalmente nelle attività contro la guerra in Vietnam. Ma la maggior parte dei miei sforzi era rivolta a distribuire volantini e riempire buste per la candidatura, ribelle e pacifista, del senatore Eugene McCarthy contro Johnson, alle primarie dei democratici. Lessi anche Il manifesto, circa un anno prima, ma avevo dei problemi nel capire cosa fosse questa cosa, la borghesia, che io da ignorante pronunciavo “bor-ghè-sia”. (Iniziai anche a essere un marxista di stretta osservanza.) Ma, ora, penso che la nostra ribellione contro questo fallimento era essa stessa fallimentare, e spesso ostinata.
Se parliamo del 1968 come emblematico di un decennio, degli anni ’60 piuttosto che di un solo anno, ne vengono fuori alcune cose interessanti. Penso che i diritti civili fossero la questione morale più importante nella politica americana nazionale (e di certo molto prima degli anni ’60). Il razzismo costituisce ancora un grande problema per gli Stati Uniti, ma il fatto che ci sia un candidato di colore per la presidenza testimonia un cambiamento significativo, anche nel caso di una sua sconfitta. La condizione delle donne si è positivamente evoluta, anche se molto ancora è da fare. Si è acquisito molto nel sociale, ma non siamo mai stati in grado di mettere insieme una coalizione politica, e un programma, per muovere la sinistra del paese come fece il New Deal di Franklin Roosevelt. E i sindacati, tra i più importanti promotori di una buona politica sociale, sono diminuiti.
Il 1968 ha prodotto molto, e valido, idealismo sociale, e ne potremmo usare ancora di più ora, specie dopo questi spaventosi anni con Bush. Ha prodotto anche parecchia autodistruzione, una utopia violenta, che ha allontanato tanti dalla sinistra. Dobbiamo ricordare entrambi gli aspetti degli anni ’60. Immagino sia per questo che mi considero un sessantottino e anche ciò che la sinistra radicale era solita chiamare un “socialdemocratico compromesso”. C’è contraddizione in questo? Certo. Peccato. Non dobbiamo salvare lo spirito della ribellione solo per amore della ribellione; abbiamo bisogno dell’idealismo che aiuti a migliorare la vita di ogni cittadino. Non abbiamo bisogno di nostalgia né di slancio di autocompiacimento, e non abbiamo bisogno di fantasticare sul fatto che nel XXI secolo il mondo postcoloniale, insieme a internet, produrrà un sostituto del proletariato di Marx. Abbiamo bisogno di proposte concrete per rafforzare la democrazia, per rimandare a casa l’ineguaglianza, per impedire che i mercati abbiano la meglio su ogni valore sociale, per iniziare a vincere sulla crudele povertà che consuma così tante vite in quello che attualmente è chiamato il mondo postcoloniale.
Traduzione di Giuseppe Martella