Operando la dilatazione degli orizzonti, l’ampliamento dei confini mentali, la dislocazione dello sguardo, il viaggio – e il ritorno dal viaggio, con i frutti che ne sono i risultati e le prove – ha inciso in profondità sulla storia culturale dell’Occidente. Senza risalire troppo indietro nel tempo (a Erodoto o a Marco Polo), è con la conquista dell’America che si cominciano a vedere gli effetti del viaggio sul pensiero moderno.
L’esistenza stessa del Nuovo Mondo e dei suoi abitanti – descritti nelle prime relazioni dei conquistatori – rappresenta il primo vero incontro dell’Occidente con l’altro, incrinando il racconto delle origini dell’uomo contenuto nell’Antico Testamento e diventando la pietra di paragone filosofica per valutare i nostri costumi e il nostro modo di vivere (Gliozzi). È allora che si comincia a delineare quello “sguardo da lontano” che diventerà centrale nell’antropologia moderna. Non è un caso che la prima descrizione dell’atteggiamento etnocentrico sia contenuta in uno degli Essais dedicati nel 1580 da Michel de Montaigne ai cannibali (“ciascuno chiama barbarie ciò che non fa parte delle proprie usanze”), e che le prime ipotesi di evoluzione naturale dell’umanità insieme alla dilatazione del tempo delle origini (in contrasto con la Genesi e con le cronologie bibliche) comincino ad affacciarsi tra i naturalisti nel corso del XVII secolo.
Intanto filosofi e scienziati invitavano gli studiosi a viaggiare per studiare finalmente gli uomini e i loro costumi: perché soltanto conoscendo i popoli sarebbe stato possibile conoscere il genere umano (così Jean Jacques Rousseau nel 1755 e ancora Gian Domenico Romagnosi nel 1828). Nel XVIII secolo nasceva l’Apodemica, cioè l’insieme delle norme stilistiche e dei parametri conoscitivi ai quali dovevano attenersi i viaggiatori nella stesura dei loro resoconti. Tra queste indicazioni spiccano in particolare l’importanza della descrizione fondata sull’osservazione diretta di usi, costumi e fisionomie degli abitanti dei paesi visitati (italiani come papuani) e la raccomandazione rivolta ai viaggiatori di non interferire con la vita degli indigeni e di non esplicitare le proprie convinzioni religiose e politiche.
L’intensificarsi – nella seconda metà del Settecento – dei viaggi di esplorazione, consente alla scienza di cominciare sempre più spesso a viaggiare: sulle navi militari, oltre a geografi e a naturalisti, si imbarcano anche medici, filologi e anatomisti. Le norme apodemiche assumono la forma prescrittiva delle “Istruzioni scientifiche per i viaggiatori”: manuali o semplici elenchi di questioni che servono a guidare lo sguardo del viaggiatore sui temi e i problemi delle scienze a lui contemporanee. Questi manuali si modellano sui “promemoria” elaborati ad uso degli antenati degli attuali turisti: quei giovani ricchi, esponenti delle classi emergenti dell’Europa e del Nord America, che si spostavano verso il sud del continente (Spagna, Italia, Grecia) per compiere il Grand Tour e completare così la loro istruzione visitando i luoghi storici e le rovine del mondo classico.
Le prime Istruzioni scientifiche sono probabilmente quelle di Georges Cuvier e Joseph M. Degérando per la Société des Observateurs de l’Homme (nelle quali si disegnano i campi e si definiscono gli oggetti di studio dell’antropologia fisica e dell’etnologia), che sono compilate per il viaggio del Capitano Baudin nelle Terre Australi e del “cittadino” Levaillant (siamo nel 1799) nell’interno dell’Africa (Moravia); norme che però rimasero sconosciute fino al primo Novecento, a causa dello scioglimento della Société (e della dispersione delle sue “Mémoires”) ad opera del regime napoleonico. Nel 1831 il giovane naturalista Charles Darwin si imbarcava (per la verità tra non pochi tentennamenti) per quel viaggio intorno al mondo che sarebbe durato oltre 5 anni e il cui frutto sarebbe stata la teoria dell’evoluzione che, del resto, veniva contemporaneamente messa a punto da un altro viaggiatore inglese, Alfred R. Wallace.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento il movimento dell’Occidente verso le terre lontane si intensifica e sempre più si orienta verso l’osservazione dei popoli, determinata soprattutto dalle esigenze del colonialismo: all’insegna del “conoscere per governare” (e dominare) i popoli soggetti. Ma non vanno dimenticate le richieste della scienza: che, alla luce del positivismo, chiede di fondare le teorie (e le scienze dell’uomo) su dati confrontabili, “oggettivi” e di prima mano. L’Antropologia “storia naturale dell’uomo”, auspicata da tanti pensatori nei decenni precedenti (da Rousseau al nostro Cattaneo), era intanto nata ufficialmente in tutti i paesi occidentali: cattedre, Musei e Società scientifiche sorgono a partire dalla metà del secolo in Inghilterra, Francia, Italia, Austria, Germania, Stati Uniti, America Latina.
Gli esponenti di queste istituzioni sono quasi tutti convinti sostenitori della teoria evoluzionistica e manifestano – fino ai primi anni del Novecento – un dominante interesse per i caratteri fisico-razziali dei popoli, considerando psiche e culture dei popoli come determinati dalla forma dei crani e dal colore della pelle (fa eccezione la Gran Bretagna, dove E.B.Tylor aveva precocemente separato lo studio delle razze da quello delle culture). Tra le preminenti attività della giovane disciplina antropologica si segnala l’elaborazione di Questionari e Manuali per la ricerca, che nascono per rispondere alle richieste sempre più numerose che i viaggiatori rivolgevano (dal “campo”) al mondo accademico. Nel 1874 compare così la prima edizione delle Notes and Queries on Anthropology (redatte dalla British Association for the Advancement of Sciences), destinate a “promuovere accurate osservazioni antropologiche da parte dei viaggiatori”. Si tratta del primo testo organico interamente dedicato alle indagini etno-antropologiche, che verrà ristampato e aggiornato fino alla seconda metà del XX secolo.
I viaggiatori – sempre più preparati scientificamente – diventano figure fondamentali: sono infatti i mediatori tra le teorie elaborate “a casa” dagli studiosi da tavolino e i dati empirici necessari per provarle e costruirle. In questo passaggio essi acquistano gradatamente (e faticosamente) i tratti degli etnografi moderni: tratti che però si sarebbero delineati compiutamente soltanto nella prima metà del Novecento, quando comincia il viaggio etnografico moderno – ormai decisamente separato dal Grand Tour – caratterizzato da una ricerca sul campo sempre più specializzata e professionale, realizzata con metodi specifici e codificati. I soggiorni presso uno stesso popolo diventano prolungati e i nativi vengono osservati dapprima secondo quello che Seligman avrebbe definito “metodo intensivo” e più tardi Malinowski avrebbe chiamato “osservazione partecipante” (Stocking). Comincia la storia dell’etno-antropologia contemporanea e il viaggio etnografico (specialmente nel mondo accademico dei paesi di lingua inglese) diventa un vero e proprio rito di passaggio per coloro che aspirano ad intraprendere il mestiere dell’antropologo (Geertz).
I frutti del viaggio otto-novecentesco (un viaggio itinerante, quantitativo e non qualitativo) sono rappresentati, oltre che da descrizioni sempre più partecipate ed empatiche dei popoli “primitivi”, dai materiali raccolti in loco (strumenti di lavoro, armi, oggetti cerimoniali, reperti ossei e anatomici) che vanno a costruire prima e ad arricchire poi i Musei Antropologici in tutto l’Occidente. In Italia il primo è quello di Firenze, voluto da Paolo Mantegazza nel 1870, presto seguito dal Museo Preistorico-etnografico fondato a Roma da Giuseppe Pigorini nel 1875. Gli oggetti dei “selvaggi”– prove concrete del cammino percorso dallo stato selvaggio alla civiltà – vengono esibiti nelle Esposizioni nazionali e universali che si tengono nelle grandi capitali europee e americane per tutto il XIX secolo e oltre, influendo sui gusti del pubblico e sull’arte moderna.
Inoltre il viaggio esotico, attraverso gli scritti dei suoi protagonisti, produce a partire dall’inizio del XIX secolo una cospicua letteratura. Costituita da diari, epistolari, cronache e resoconti stesi dai viaggiatori, essa si inserisce all’interno di un consolidato genere letterario (quello dell’odeporica) e diventa una lettura appassionante per la borghesia occidentale, contaminandosi con la narrativa di evasione e fornendo un’immagine attraente (e spesso edulcorata) dell’espansione coloniale. Si creano così nuovi generi (la fantascienza) o si rinnovano quelli esistenti (le vicende avventurose di mare e di terra). Fin dal Settecento, viaggi immaginari (eppure verosimili) avevano preso forma nelle opere di Defoe (Robinson Crosoe) e di Swift (I viaggi di Gulliver). Più tardi, per tutto l’Ottocento, letteratura fantastica e storie di viaggio si intrecciano nelle opere di Poe (Gordon Pym) e di Stevenson (L’Isola del Tesoro), di Salgari (con i romanzi del ciclo della jungla nera) e Verne (Viaggio al centro della Terra).
La sovrapposizione tra le esperienze rigorosamente vissute e quelle raccontate da altri, il predominio dell’io narrante, la duplicità della scrittura (che alterna la prosa scientifica a quella letteraria), il coinvolgimento del lettore nel testo, l’appropriazione del “punto di vista dei nativi” (insieme ai canoni della letteratura di viaggio mai del tutto abbandonati), trapassano nella monografia etnografica, segnandone a lungo le retoriche e rendendola – come è stato detto – tanto un genere letterario ibrido quanto una “vera fiction” (Geertz, Clifford & Marcus).
Eppure, prima di essere soppiantate dal resoconto scientifico, le storie di viaggio non solo contribuiscono a costruire categorie culturali come quelle di esotismo e di orientalismo (Said), ma rinforzano e nobilitano lo statuto stesso del viaggio, rendendone popolari risultati e protagonisti: cosa che avviene proprio grazie allo stile del racconto e al fascino esercitato dalla restituzione “dall’interno” e in prima persona dell’esperienza vissuta. Così i viaggiatori più celebri (tra i quali si devono ricordare i nostri Elio Modigliani e Paolo Mantegazza, Enrico Giglioli e Guido Boggiani, Carlo Piaggia e Lamberto Loria, Luigi ed Enrico D’Albertis), con le loro peripezie, la dislocazione spazio-temporale, lo spaesamento, gli incontri ravvicinati e spesso rischiosi con uomini diversi, assumono i lineamenti e il carisma di veri eroi moderni e di modelli esemplari per il rispecchiamento e l’identificazione dei lettori.