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  • Luigi Perissinotto

    Da un punto di vista teorico, l’interesse per la traduzione è strettamente legato, da un canto, alla centralità che il linguaggio ha assunto nella filosofia novecentesca (si è parlato al riguardo di “svolta linguistica”) e nelle scienze umane e non; da un altro, al rilievo che, nel versante ermeneutico (ma non solo) della filosofia contemporanea, hanno assunto i temi della formazione e trasmissione del senso, del rapporto tra familiare ed estraneo, della relazione tra precomprensione e interpretazione, della essenziale dialogicità del linguaggio.

    In questo orizzonte, trasversale rispetto alla distinzione tra filosofia analitica e filosofia continentale, la traduzione è apparsa non soltanto un tema di grande rilevanza, avendo essa a che fare con le questioni della diversità delle lingue, della relazione tra lingua e pensiero, della trasposizione dei significati in mondi linguistici diversi, ma addirittura come una via d’accesso privilegiata al fenomeno della comprensione linguistica. “[L]a struttura dell’atto linguistico – ha scritto Hans-Georg Gadamer – viene in luce in modo particolarmente istruttivo là dove il dialogo, svolgendosi in due lingue diverse, è reso possibile solo dalla traduzione. […] Ogni traduzione è […] sempre una interpretazione, anzi si può dire che essa è il compimento dell’interpretazione che il traduttore ha dato alla parola che si è trovato di fronte”.

    Seguendo Paul Ricoeur, potremmo dire che nella riflessione sulla traduzione e sulle sue condizioni di possibilità sono state di volta in volta assunte posizioni teoriche differenti ai cui estremi stanno, da un lato, l’insistenza, più o meno enfatica, sull’impossibilità della traduzione (i sostenitori più noti di questa tesi sono stati, com’è noto, Edward Sapir e Benjamin L. Whorf), dall’altro, l’affermazione che la traduzione è possibile o perché tutte le lingue sono originariamente o nel fondo la stessa lingua (nel Novecento, Walter Benjamin o Franz Rosenzweig) o perché nel profondo convergono nelle stesse forme o strutture. Nel primo caso la diversità delle lingue è considerata strutturale e insormontabile, o sormontabile solo illusoriamente.

    Il fatto che da sempre si traduca non sarebbe propriamente un fatto; il fatto è piuttosto che da sempre ci si illude di tradurre. Ciò che tutt’al più accade è che imponiamo la nostra lingua – le sue categorie e articolazioni ontologiche – alla lingua estranea. Nell’altro caso, la diversità è considerata, secondo la tradizionale lettura del mito di Babele, come una deficienza e una condanna che va riscattata o riscoprendo la lingua originaria perduta o costruendo una lingua logicamente perfetta, secondo quell’ideale che unisce la caratteristica universale di Leibniz alla ideografia di Gottlob Frege e ai linguaggi formalizzati di Rudolf Carnap, non a caso grande estimatore dell’esperanto.

    È evidente che in questa opposizione, così come nelle opzioni teoriche che cercano di sfuggirvi, si riflettono differenti concezioni del linguaggio e del significato. È anche per questo che il problema della traduzione non ha un significato puramente tecnico, di messa a punto di strumenti e di metodi idonei a tradurre da una lingua all’altra, ma assume una rilevanza teorica generale. Come ha efficacemente osservato Tullio De Mauro, per affrontare il problema della traduzione “occorre mettere le carte in tavola e dichiarare almeno alcuni più generali presupposti relativi a linguaggi e lingue. […] l’attività traduttiva è coestensiva al linguaggio”.

    Vorrei qui proporre un solo esempio di questo intreccio, tratto dalla tradizione analitica. Si è detto che chi considera la diversità delle lingue un effetto di superficie, ossia chi ritiene, per usare un’immagine resa famosa da Ludwig Wittgenstein, che le diverse lingue siano “abiti” differenti che rivestono lo stesso “corpo”, la traduzione può essere più o meno tecnicamente impervia, ma non ha nulla di filosoficamente problematico. Così pensava Frege. Il pensiero, ossia il senso o contenuto di un enunciato, è qualcosa di oggettivo, non contaminato dalle contingenze individuali, antropologiche o storico-culturali. “Es regnet” esprime lo stesso pensiero di “Piove”; tutto ciò che possiamo inferire dall’uno possiamo inferirlo anche dall’altro. In questo senso l’uno è la perfetta traduzione dell’altro. La traduzione è garantita insomma dall’oggettività del senso. Tuttavia, Frege riconosce che vi può essere, almeno a un primo livello, una differenza tra la traduzione e il testo originale.

    Si consideri, per esempio, il primo verso della poesia di Gabriele D’Annunzio La pioggia nel pineto: “Piove”. “Es regnet” ne è la traduzione in tedesco, ma in questa traduzione si smarriscono le coloriture e le sfumature del verso originale. Esse, infatti, “non sono oggettive [come il senso], ma l’ascoltatore o il lettore deve procurarsele da sé, secondo le indicazioni del poeta” (Frege). Ma come dà il poeta le sue indicazioni? Mediante la sonorità, per esempio, e “Piove” di certo suona diversamente da “Es regnet”. Riesce forse “Es regnet” a restituire al lettore tedesco quell’impressione di un acquazzone improvviso che io, di madre lingua italiana, sento (senza peraltro, aggiungerebbe Frege, avere la sicurezza di aver inteso le indicazioni del poeta) nel “Piove” dannunziano? In questa sottolineatura della difficoltà di tradurre la poesia, Frege è in buona compagnia, una compagnia che comprende, tra gli altri, Dante e Roman Jakobson. Va anche osservato che egli non intendeva per nulla denigrare la poesia quanto piuttosto marcare la differenza tra due diversi interessi: “Allo spirito orientato alla bellezza della lingua può apparire importante proprio ciò che per il logico è indifferente” (Frege).

    Concesso tutto questo, occorre tuttavia riconoscere la difficoltà della nozione fregeana di soggettivo. Secondo Frege, per esempio, le coloriture e le sfumature sono, a differenza dei sensi, soggettive innanzitutto perché la corrispondenza tra le indicazioni del poeta e le nostre rappresentazioni non può mai essere verificata “con esattezza”. Ma perché mai questo dovrebbe renderle soggettive? Del resto, non capita sovente che riconosciamo “con esattezza” il tono di disprezzo o di irrisione o di condiscendenza con cui qualcosa viene detto? Non vi è forse nell’oggettivo più “poesia” di quanto Frege pensava? E non è la “poesia” meno soggettiva di quanto egli riteneva? Non è dunque l’idea fregeana secondo cui “la differenza tra la traduzione e il testo originale non dovrebbe andar oltre questo primo livello [quello che comprende le coloriture e le sfumature]” doppiamente problematica?

    Finora abbiamo parlato di quella che viene chiamata traduzione esolinguistica, ossia la traduzione tra lingue diverse. Ma una novità degli studi contemporanei sulla traduzione è la rilevanza attribuita alla cosiddetta traduzione endolinguistica, ossia entro la medesima lingua. Si deve a Willard V.O. Quine lo slogan “La traduzione radicale incomincia a casa (at home)”. Ciò significa che possiamo legittimamente parlare di traduzione anche nei casi di comunanza linguistica. Quali sono in generale i motivi di questo orientamento? Qui ne indico due. Il primo è che la nozione di comunanza linguistica appare a molti problematica. Secondo Quine essa presuppone che ci atteniamo sempre alla cosiddetta regola omofonica, che consiste nell’ “eguagliare le parole italiane del nostro vicino alle medesime stringhe di fonemi che escono dalla nostra bocca”. Siamo sempre costretti a fare così? La risposta di Quine è negativa: “Certamente no; perché talvolta non le eguagliamo in questo modo.

    Talvolta troviamo che è nell’interesse della comunicazione riconoscere che l’uso da parte del nostro vicino di qualche parola come ‘fresco’ o ‘quadrato’ o ‘fiduciosamente’ è differente dal nostro, e così traduciamo quella sua parola in una diversa stringa di fenomeni del nostro idioletto”. Talvolta, insomma, sospendiamo la regola omofonica onde evitare, per esempio, di attribuire al nostro interlocutore delle palesi contraddizioni o delle credenze palesemente false, ossia per continuare a comunicare: “Sembra avere una credenza assurda; in realtà non usa quella parola con lo stesso mio significato”. Il secondo motivo nasce dall’enfasi sulla funzione metalinguistica.

    Per esempio, quando ci sentiamo fraintesi cerchiamo di dire la stessa cosa diversamente oppure, quando non capiamo ciò che l’altro dice, gli domandiamo spiegazioni e illustrazioni del significato delle sue parole. Come ha sottolineato Ricoeur, “dire la stessa cosa in altro modo, in altri termini, è ciò che appunto fa il traduttore di lingua straniera”. Ma quest’altro modo di dire dice davvero la stessa cosa? È questo un interrogativo che accomuna il traduttore di lingua straniera e colui che comunica nella stessa lingua. La risposta richiede ancora una volta che si mettano le carte in tavola.