Certo, esso può essere conquistato, ma, prima o poi, e a dispetto degli imperi, torna a se stesso, allo statuto di mare di tutti e di nessuno. Il Mediterraneo è unito da tanti tratti geofisici comuni, dalla dolcezza del clima, dai colori, dalle lunghe sere all’aperto, da una convivialità che avvicina gli uomini, da un mescolarsi secolare di geni che ha scavalcato ogni pretesa di purezza. Ma esso è anche diviso dalle lingue, dalle religioni, dall’inerzia dei continenti, di cui costituisce il margine estremo, quello che si affaccia sull’altro.
Stando sul confine, da sempre esso ascolta gli uomini parlare e pregare in modo diverso, e conosce bene la pluralità, sa che l’integralismo è la più stupida e rozza delle opzioni. Un mare di confine è un multiverso, che ha un’antica confidenza con il trasporto delle merci e delle storie da una riva all’altra e da una lingua all’altra. È qui che si sono sviluppati i verbi del passaggio e del transito, rendendo meno soffocante il peso delle identità, la loro fissità ed inerzia terrestre. E non per caso è nata qui la filosofia, una forma della verità che non è data una volta per tutte, ma è il risultato di una ricerca eternamente provvisoria.
Molti ritengono che il Mediterraneo sia soltanto un mare del passato, il cuore del “Vecchio Mondo” (Hegel), ormai superato dai grandi spazi oceanici, dal crescere delle distanze e dall’enorme sviluppo delle tecnologie necessarie a varcarle. Ed è sicuramente vero che la storia della modernità cinque secoli fa ha preso la via del nord e dell’ovest relegando questo mare nella periferia. Ma fermarsi a questa figura sarebbe superficiale perché oggi questo mare è tornato al centro della grande storia, con l’andamento drammatico che sempre essa assume. Il Mediterraneo, infatti, è la linea sulla quale s’incontrano il nord ovest e il sud est del mondo, non è una periferia, ma un luogo determinante e cruciale. Questa linea di contatto può diventare, come sostiene Samuel Huntington, una linea di faglia, di separazione e contrapposizione, l’annunzio del conflitto delle civiltà, oppure imboccare la strada opposta, quella del dialogo, laddove i tratti comuni si mescolano alle differenze ed insegnano loro a rispettarsi, a comprendersi e a conoscersi.
Il presupposto di questo dialogo è l’abbandono di quell’assunto coloniale che dura ancora oggi, secondo il quale, uno dei soggetti, essendo dalla parte del sapere e della civiltà, ha solo da insegnare e l’altro, avendo poco da dire, deve solo imparare. Un rapporto così asimmetrico non è un dialogo, ma un monologo. L’altro, nel dialogo, non è una figura imperfetta e attardata di noi, ma un’altra prospettiva sul mondo. La differenza non va trasformata in una gerarchia. Ognuno deve imparare dall’altro ed insegnare ad esso. Solo questo tipo di relazione smilitarizzata spezza il gioco omicida dei fondamentalismi, che mira a rendere monolitiche le culture, a soffocarne la pluralità e la complessità interna. Dia-logare non significa solo far parlare tra loro due culture diverse, ma anche far sì che ognuna di esse parli al proprio interno, si confronti con una pluralità di interpretazioni.
Ma perché il dialogo funzioni occorre anche mettere per un attimo da parte questa dimensione solo orizzontale del discorso, nella quale i soggetti compaiono in pari condizioni. In realtà non è così. Poco più di mezzo secolo fa l’Africa era divisa in tanti stati disegnati dalle cancellerie europee, proprietà private degli imperi coloniali: l’Angola era portoghese, l’Egitto inglese, l’Algeria francese, il Congo belga, e così via. Ancora oggi l’Ovest continua a pensare di poter decidere l’assetto degli stati del bacino del Mediterraneo. Che cosa penseremmo noi se i mujhadin presidiassero i pozzi di petrolio del Texas e dell’Alaska? Non ci sembrerebbe, giustamente, di essere di fronte un’insopportabile prevaricazione? Non si farà un passo avanti nel dialogo se non si ridurranno questo squilibrio e questa asimmetria, che sono la vera causa del fondamentalismo. Chi ama e vuole il dialogo non lo deve dissociare dalla giustizia, perché altrimenti esso sarà sempre gracile ed incerto, e tornerà ogni volta a franare a valle. Per battere il fondamentalismo degli altri occorre saper riconoscere e combattere il proprio.
Ma sui contenuti del dialogo c’è ancora qualcosa di importante da dire. Il Mediterraneo non è solo un mare postmoderno e postcoloniale, sul quale si fa l’esercizio dell’altro. Esso è anche un’idea di mediazione, che combatte la contrapposizione tra due fondamentalismi, quello della terra e quello del mare. Il primo fondamentalismo è molto evidente, è quello dell’appartenenza e dell’identità e tiene stretto l’individuo con il guinzaglio del legame sociale, sia esso etnico o religioso. In Fuga da Bisanzio, Josif Brodskij ha descritto mirabilmente questa oppressione: laddove la critica viene vista come un attentato alla fedeltà e alla coesione del gruppo, chi dissente è un criminale.
Ma di fronte ad esso c’è il fondamentalismo di segno opposto, quello del mare. Qui l’individuo è partito senza ritorno, così come nell’oceano il mare non incontra più il confine della terra. Questa contrapposizione fu messa a fuoco a suo tempo da Carl Schmitt in un libro famoso, Terra e mare. Ma Schmitt era tutto dalla parte della terra, non era un uomo mediterraneo, che si muove sempre tra terra e mare, tra appartenenza e libertà, tra individuo e protezione sociale. La nostalgia schmittiana, che attribuiva con sicurezza l’uomo alla terra, non aveva conosciuto il brivido della partenza, manteneva la diffidenza platonica per il marinaio. Ma oggi l’oceano dell’economia e del mercato globale, di quella “modernità liquida”, nella quale chi si ferma è perduto, consegnano l’uomo ad una costante precarietà, ad un’incertezza endemica e pervasiva. Accanto alle patologie del totalitarismo che perseguita la libertà, ci sono quelle, senza nome e senza contabilità, che nascono dalla costante esposizione alla precarietà, che vedono la protezione e la pari dignità degli uomini come una debolezza o una regressione.
La voce del Mediterraneo non arriva quindi dal passato, ma dal futuro né ha un valore soltanto locale: l’equilibrio di terra e di mare, appartenenza e libertà, è un modello di vita che non demonizza il nostro bisogno di legame né il nostro bisogno di libertà. Il dialogo non rimane chiuso sul terreno del metodo, ma parla di contenuti, di una vita nella quale la misura sta lì a garantire che l’uomo non sia risucchiato da due hybris opposte, quella che in nome del bene comune opprime l’individuo e quella che in nome della libertà lo abbandona in alto mare. Mediterraneo, terra e mare, vuol dire anche questo.