L’etnocentrismo che preoccupa oggi non è il diffuso pregiudizio di superiorità del proprio gruppo ma il pregiudizio “occidentale” di superiorità del mondo culturale “occidentale”. Questo perchè la “cultura” “occidentale” (usiamo questa espressione anche se sappiamo che in realtà non esiste una cultura “occidentale”, anzi non esistono neppure le “culture” come realtà distinte e separate) non solo ha assunto una posizione dominante in molte aree del pianeta, ma anche viene considerata “ovviamente” superiore.
Un esempio di quanto possa apparire “ovvio” in “occidente” il pregiudizio etnocentrico ci viene offerto da Richard Shweder, dell’università di Chicago: “Una volta andai a pranzo con Margaret Mead a una tavola rotonda dell’American Anthropological Association. L’anno era il 1971. Qualcuno le chiese: “Quale società è la migliore per farci crescere dei bambini?” “Calma”, rispose Mead. “Dipende se è un ragazzo o una ragazza. Se è un ragazzo lo farei crescere in Inghilterra, lo manderei in una delle loro public schools e lo terrei lontano dalla mamma. Se è una ragazza la farei crescere in America, qui, ora, nel pieno del movimento di liberazione delle donne.
Questo è il momento migliore che ci sia mai stato per una ragazza”” Shweder commenta: “Non so come Margaret Mead risponderebbe alla stessa domanda oggi, trent’anni dopo. Mentre entriamo nel ventunesimo, secolo le immagini della realtà e gli ideali proposti dal movimento delle donne non sono né omogenei né unitari, e l’idea stessa di che cosa significhi crescere da americana è molto contestato da vari punti di vista: religiosi, razziali ed etnici. Ma so come risponderei io: non c’è un posto particolare in cui è meglio crescere. Un posto davvero buono è qualsiasi posto in cui impari che non c’è un posto migliore degli altri per crescere, che tu sia una ragazza o un ragazzo”.
Dire quello che dice la Mead significa pensare che l’educazione giusta è quella che si riceve negli Stati Uniti o in Inghilterra, che il sapere vero è quello delle scienze occidentali, che le cure valide sono solo quelle della “nostra” medicina, che il modo giusto di essere donne è solo quello proposto dalle femministe americane, e così via; anche, naturalmente, che la forma di governo migliore per tutta l’umanità è la democrazia mediatica americana. Persino i progetti “umanitari” a favore del “terzo mondo” spesso incorporano una filosofia politica ed una morale di orientamento liberal che considerano ovvia ed universale la versione americana dei “diritti umani” nel quadro di un generale “progetto di civilizzazione imperiale liberale“.
Ma l’idea della superiorità dei valori “occidentali” poggia su una teoria errata e su molte ignoranze. La teoria, che di solito non viene enunciata apertamente come nell’epoca coloniale, è quella della scala delle “culture” che vede in cima il mondo “occidentale” (un tempo si diceva “europeo” ma ora il riferimento è sempre più nettamente “americano”). La storia umana sarebbe un cammino univoco verso un “progresso” definito negli stessi termini per tutte le società umane. Il sentiero sarebbe uno solo, come anche la meta. “Allora come ora il gradino su cui le varie culture erano collocate dipendeva da un ristretto numero di indici di progresso, o sviluppo, o evoluzione che si ritenevano oggettivi ed altamente correlati tra loro.
La direzione di marcia si pensava che andasse da povero a ricco, da magico a scientifico, da illetterato a capace di leggere e scrivere, da ineducato a educato, da semplice a complesso, da malato a sano, da autoritario a democratico, da poligamico a monogamico, da pagano a cristiano, da oppresso a libero. L’essenziale era che il nostro modo di vivere è il più vero, buono, bello ed efficiente e che le credenze, i valori, le pratiche degli altri nella misura in cui differiscono dalle nostre sono false, vergognose, sgradevoli ed irrazionali”. Chi è in cima alla scala non solo sa che cosa dovrebbero fare gli altri ma è anche certo del fatto che il punto in cui egli si trova è il punto d’arrivo; le altre prospettive sono meno vere, meno morali, meno democratiche delle sue. All’occorrenza può anche cercare di far valere le sue idee con la forza, naturalmente per il bene dell’ “altro” che non è in grado di vedere chiaramente che cosa sia bene per lui.
Le molte ignoranze che sostengono la pretesa di superiorità “culturale” “occidentale” sono la conseguenza – e nello stesso tempo la causa – della presunzione di superiorità. Se il punto di vista “occidentale” è il più progredito, civile, “scientifico”, che bisogno c’è di prestare attenzione alle forme di vita coltivate in società umane inferiori e superate? Le immagini – di donne insaccate in informi mantelli bigi, di penitenti in processione coperti del sangue delle flagellazioni, di bimbi che giocano fra cumuli di immondizie – che i media rovesciano quotidianamente su un pubblico disorientato sembrano scelte per confermare il pregiudizio della superiorità del “nostro” mondo. La nostra ignoranza dei sistemi di valori dell’ “altro” ci fa leggere la diversità come arretratezza, la virtù come servitù.
È questo, ad esempio, un tema dibattuto in questo momento tra gli antropologi culturali americani a proposito della condizione delle donne indù. Alcuni studiosi, come Richard Shweder, professore di antropologia all’università di Chicago, rimproverano alle colleghe femministe americane di sovrapporre la propria voce a quella delle donne indù, supponendo una superiorità di valori quali autonomia, individualismo, competizione e affermazione personale che sono in realtà valori americani. “Ignorare i valori morali alternativi presenti nella pratica della vita familiare in India, pensare che il controllo interiore, il servizio, la gratificazione differita non siano altro che forme di accettazione dell’oppressione, significa non solo denigrare queste donne ma anche impegnarsi in una nuova versione fine ventesimo secolo dell’imperialismo cognitivo e morale”.