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  • Federico Mento

    A riguardo, Castel e Larsen sostengono che l’ampia divulgazione del termine “esclusione” è imputabile a un noto lavoro di René Lenoir, Les Exclus, pubblicato nel 1974. Gli “esclusi”, nella formulazione di Lenoir, sono tutti coloro che manifestano un’incapacità soggettiva nel poter vivere all’interno delle nostre società: disabili, anziani non autosufficienti, alcooldipendenti e tossicodipendenti. Questa definizione, secondo Robert Castel, pur essendo estremamente estesa, tuttavia, “continua a caratterizzarsi a partire da una deficienza personale”.

    Dalla seconda metà degli anni ’80 in avanti, gli effetti delle transizione post-fordista contribuiscono a modificare in profondità il mercato del lavoro e i meccanismi di protezione sociale. In questo quadro caratterizzato dalla rottura degli ingranaggi del compromesso tra capitale e lavoro proiettato sino ad allora alla realizzazione di società della piena occupazione, la categoria di “esclusione” subisce un’improvvisa “estensione” nella sua tradizionale applicazione. Escluso non è solo colui che non è in grado di produrre un reddito e, dunque, al suo sostentamento debbono provvedere i meccanismi di protezione previsti dal Welfare state, ma una serie soggetti, esposti ai rischi delle “nuove povertà”, iniziano ad essere considerati, sia a livello di istituzione che nel mainstream degli studi teorici sugli “esclusi”.

    Rispetto a questa dinamica, non ci sorprende che, proprio tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ‘90, vi sia stato, in seno alle scienze sociali, un ricca produzione teorica e pratica su diversi gruppi sociali le cui condizioni erano tali da configurare una loro appartenenza al campo degli esclusi. Pensiamo, ad esempio, ai lavori di William Julius Wilson e di Massey e Denton sulle nuove povertà e sui fenomeni di segregazione razziale nelle metropoli americane, alle riflessioni di Loic Wacquant e Robert Castel sulle realtà urbane francesi, al contributo di Jurgen Habermas sui modelli d’inclusione nelle società multiculturali.

    In questo senso, gli studi sulla condizione dei migranti nelle società occidentali hanno rappresentato una parte consistente delle riflessioni prodotte sulla tematica dell’inclusione. L’essere “un soggetto migrante” diviene una condizione paradigmatica dell’esclusione nelle società avanzate (Mezzadra, Dal Lago); seppur il migrante, in molte occasioni, è in grado di poter produrre un reddito che lo sostenga, gli è preclusa, in larga parte dei contesti che ricevono il flusso migratorio, la piena cittadinanza. In tale prospettiva si intuisce la centralità della questione dei migranti e della società multiculturale nell’agenda politica dei movimenti conservatori della nuova destra, sia essa “teo” che “neocon”. Essendo stati privati della possibilità di utilizzare la categoria di razza nella costruzione dei discorsi esclusivi sull’altro, si sono appropriati della cultura e in particolare hanno cercato di piegare e modellare gli approcci tesi a dimostrare l’irriducibilità delle culture umane.

    Paradossalmente il Lévi-Strauss di Razza e Cultura si è trovato improvvisamente «arruolato, volente o nolente, al servizio dell’idea che la “mescolanza delle culture”, la soppressione delle “distanze culturali”, corrisponderebbe alla morte intellettuale dell’umanità e forse metterebbe addirittura in pericolo le regole che ne assicurano la sopravvivenza biologica» (Balibar). La crescente mobilità delle popolazioni, che genera società ibride, meticcie e diasporiche, rappresenta un’evidente minaccia alla “civiltà occidentale”, configurando, agli occhi dei movimenti conservatori, un potenziale pericolo per le radici “giudaico-cristiane” delle nostre società – dimenticando, in maniera poco casuale, il contributo del mondo arabo alla produzione culturale e scientifica occidentale.

    Non è certo un caso che all’indomani dell’11 settembre 2001, si siano, da più parti, levate grida sull’impossibilità di poter includere nelle “democrazie liberali” coloro che professano l’Islam e sono portatori di valori radicalmente alternativi ai nostri. È evidente che tale modalità di rappresentazione-esclusione dell’Altro funziona a partire da una visione fortemente essenzializzata dei complessi culturali che, da sempre, contribuisce alla costruzione dell’identità nazionali (Anderson, Balibar, Gellner, Hobsbawm).