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  • Ingrid Salvatore

     Questa concezione dei diritti umani ha origine nel modo in cui il dibattito sui diritti umani si è proposto nella storia recente: la caduta del regime hitleriano, i processi per crimini contro la pace e contro l’umanità che vi fecero seguito. Richiesto di dar conto di che cosa avesse fatto sì, a suo avviso, che oscuri burocrati si fossero lanciati al seguito Hitler, Carl Schmitt, allora prigioniero a Norimberga, indicò nel positivismo giuridico, nel suo formalismo, la ragion d’essere di un’obbedienza cieca e senza riserve a un regime disumano e immorale.

    E questa resta, in sostanza, la nostra visione. Il dibattito sui diritti umani nasce, dunque, come riaffermazione del diritto naturale, dopo che il positivismo giuridico era finito sul banco degli imputati, insieme agli orrori del regime nazista. Non di meno, quando il dibattito su quali dovessero essere i diritti umani cominciò sul serio, quando si trattò di stabilire che cosa si dovesse riconoscere come diritto inalienabile di ciascun essere umano, come accadde della Dichiarazione universali dei diritti umani del 48, le cose si complicarono non poco. Erano, per esempio, i diritti sociali parte dei diritti umani? Il diritto alle ferie o al tempo libero deve essere riconosciuto come un diritto umano?

    Nel tempo, il dibattito interno al positivismo giuridico, immediatamente successivo a Norimberga, si è fatto più marginale e lo scontro su quali dovessero essere i diritti umani si è spostato sul terreno della diversità culturale. Il nucleo della questione, tuttavia, resta lo stesso, come mostrano i due grandi ambiti entro cui il dibattito è più acceso: la protezione dei lavoratori nel mercato unico del lavoro creato dalla globalizzazione economica, da un parte, e il tentativo di identificare un nucleo comune di diritti inviolabili in quello che definiamo “dialogo interculturale”, dall’altra. Nel primo caso, ci dibattiamo fra la necessità di proteggere il lavoro dallo sfruttamento (ma come definito?), impedendo il lavoro minorile (ma come identificato?), regolando la giornata lavorativa (ma quanto lunga?), senza tuttavia privare i paesi più poveri del vantaggio competitivo rispetto ai paesi ricchi.

    E, ancor più confusamente, nel secondo caso, dibattiamo sull’essere i diritti umani una costruzione culturale o, invece, una caratteristica degli esseri umani in quanto tali. Queste difficoltà sembrano così astruse e i diritti umani così cruciali per la vita di così tante persone che la tentazione di molti autori è stata quella di negare la rilevanza filosofica dei diritti umani, insistendo sulla loro rilevanza politica. Lo ha fatto Michael Igniatieff di recente, e non è il primo. Tuttavia, molti sostengono che ci sono ottime ragioni per non seguire proposta, e propendere per un’altra. Infatti, in quanto costituiscono il contenuto imprescindibile del diritto positivo, i diritti umani non sono costrutti giuridici da noi inventati.

    Sono valori morali reali che scopriamo nel mondo e che, attraverso il diritto, riusciamo a difendere. In questa concezione, la morale è il contenuto del diritto e il diritto lo strumento con cui si applica o realizza quel contenuto. C’è, dunque, un solo diritto giusto: quello che difende il contenuto scoperto. Questa visione ha il pregio di permettere di riconciliare la pretesa universalistica implicita nella concezione dei diritti umani come diritti oggettivi con il fatto che non tutti condividono gli stessi valori. Altre culture, altri sistemi, altre organizzazioni sociali, infatti, possono non averli ancora scoperti (e nessuno può dire se mai li scopriranno).

    Dipendono da qui due reazioni di diverso valore. La prima è quella della chiamata alle armi in una nuova e assurda guerra di religione in nome dei diritti universali. La seconda è quella che si contrappone duramente allo scontro fra le culture, insistendo sul fatto che, per far accettare a culture che non li condividono i diritti umani, occorre rintracciare i modi appropriati. L’elemento cruciale che le due visioni condividono è che esistano valori che sono oggettivi. Questa concezione, del resto, sembra dipendere direttamente dall’aver imparato la lezione di Norimberga. Ci deve essere qualcosa di oggettivo che vincola i sistemi statuali. Non ci si può affidare ai contesti locali. Non ci si può affidare alle culture, ai costrutti giuridici, alle tradizioni, ai costumi. Ci deve essere un vincolo indipendentemente alle decisioni. I diritti umani e i modi per garantirli sono lì per questo. Si tratta, tuttavia, di una concezione assai ingenua dell’oggettività, e di conseguenza anche dei diritti umani.

    In realtà, non è questa la lezione di Norimberga. I diritti umani, infatti, non sono là, in attesa che qualcuno li scopra, perché l’oggettività non si rintraccia mai guardando il mondo al di là della nostra esperienza, comprese le nostre costruzioni sciali, giuridiche, culturali. È, al contrario, l’esistenza di fatto delle culture, delle società, delle leggi, dei costumi, che ci restituisce conoscenza di quello che è fondamentale nelle nostre vite, di quello senza cui la nostra vita diventa miserevole. E, da questo punto di vista, si può scommettere che, fintanto che gli esseri umani costruiscono società, dandosi così regole di convivenza, la libertà, la giustizia, l’ambizione a una vita degna, il rifuggire il dolore e la miseria sono altrettanto cruciali per qualunque individuo – indiano, arabo, musulmano, africano, giovane, vecchio, maschio, femmina – abbia mai calcato questo suolo.

    Esistono diritti umani, dunque, non perché esista un elenco là, che possiamo mostrare a chi sia stato culturalmente così naif da non averli ancora scoperti, ma perché, dopotutto, gli esseri umani sono abbastanza simili tra loro da richiedere e necessitare delle stesse protezioni. I diritti umani, in questo senso, altro non sono che una costruzione, uno strumento a protezione di bisogni e aspirazioni fondamentali.