Nel primo caso si tratta di processi che devono la loro spiegazione alla costituzione della materia e all’incapacità umana a opporre rimedi alla nocività di meccanismi che riguardano l’uomo e l’ambiente. Tali eventi (fisici, chimici, biologici, nucleari) sono oggettivi e non dipendono dalla volontà umana. Nel secondo caso invece, si indicano i “poteri spirituali” che colpiscono, in maniera altrettanto automatica e meccanica, tutto ciò che li contrasta, producendo cambiamenti indesiderati allo status dei trasgressori.
Sul versante della riflessione scientifica si tende a differenziare fra fisico e psichico, attribuendo al primo campo la presenza di fenomeni spiegabili tramite il ricorso a forze “naturali” e traducendo la nozione di “contaminazione” in termini più “oggettivistici” quali “pericolo” e “rischio”. Nel campo delle scienze umane e sociali, invece, la nozione è collegata alla riflessione sul rapporto fra simbolismo e società, in particolare sul linguaggio “simbolico” connesso al “tabù” e alle trasgressioni sociali e morali. E per tali motivi il termine viene spesso considerato equivalente a “contagio”, “sciagura”, “impurità”, “abominio”, “castigo mistico”.
Per la prospettiva sociologica, il nucleo della contaminazione (pollution) è sociale perché per i soggetti che si macchiano di una trasgressione, alla colpa deve seguire una pena (espiazione) che ripristini l’ordine sociale infranto. La contaminazione è perciò il linguaggio con cui una società reagisce alla anomia o alle crisi interne, mentre il “tabù” rappresenta la forma minima di rituale destinata o a prevenire o a neutralizzare l’evento negativo.
Per la prospettiva cognitivistica la contaminazione è un (errato) processo mentale che si basa sulla credenza che, quando manca un ordine concettuale nel mondo, ha la meglio il “male”, sia fisico sia morale. La mente umana, da sempre abituata a pensare in termini logici di opposizioni e di differenze i vari stati del mondo, non può sopportare né contraddizioni, né ambiguità concettuali. Ne segue che le percezioni e i concetti “disordinati” o “ambigui”, vengono a stazionare in una zona intermedia delle classificazioni (“liminale”), assumendo un valore di “anomalia”, da cui tenersi lontani, pena essere – appunto – essere “contaminati”.
La questione cruciale è che la contaminazione rituale o simbolica, nel suo apparire, parla il linguaggio della malattia: un corpo, se indebolito, è più facile preda di agenti esterni nocivi. Nel rapporto con il mondo un soggetto culturalmente determinato teme di perdersi nella realtà che incombe su di lui, ma teme anche i rischi che comporta l’opporvisi. Il luogo del massimo rischio è il corpo che agisce da frontiera e da baluardo all’invasore esterno. Lo dimostra la topografia della contaminazione e delle proibizioni, che ha sempre a che fare con confini, metaforici e non, tra dentro e fuori, sé e altro: nascita, morte, nome, gruppo, cibo, sangue, sesso, sensi, mondo animale e non; tutti quanti, mediati rigorosamente dal corpo.
Ernesto De Martino definiva “apocalisse culturale” quel rischio che pone una minaccia essenziale all’identità umana. E perciò, il linguaggio della contaminazione e del tabù rimanda non a un pensiero “primitivo” o immaturo (come erroneamente si pensava quando lo si attribuiva ad un pensiero arcaico o “magico”), quanto alla genesi e alla formazione del self culturale. E, in tal guisa, rende conto del nucleo forte della categoria universale dell’esperienza umana del “sé” che si trova in contatto diretto con l’“altro”. Gli studi antropologici mostrano che tale esperienza è vissuta in maniera diversa a seconda della geografia e della cultura degli individui e delle popolazioni incontrate, in maniera sia positiva sia negativa. La cultura della modernità occidentale la interpreta in maniera negativa, come reazione necessaria all’ “altro”, secondo il modello medico della patogenesi del “male”; ma non in altre culture, dove ad esempio è accettata la trance. Esistono però anche correnti della storia europea più benigne verso la contaminatio, e sono gli studi letterari e la letteratura in genere. “Contaminazione”, in questo caso, significa innesto creativo e produttivo di esperienze diverse, che danno vita a identità più ricche e stratificate.
Questa ultima prospettiva è di chi vede nell’incontro fra culture un incontro fra discorsività e “commenti” sul mondo (in una parola forte: “testi”), ove significati, simboli e pratiche entrano in un processo di assimilazione fra i soggetti, creando “generi misti” di senso. Qui la contaminazione assume il ruolo di mediazione fra “identità” e “pluralismo”, al fine di dare vita a uno “scambio culturale” che superi sia la situazione statica del “mosaico delle culture” sia la fusione del puro “assimilazionismo”. Il modello patologico, viceversa, sposa spesso tesi che si avvicinano alla versione scientifica della contaminazione, in specie quando naturalizza gli incontri fra le culture in termini di meccaniche destinate a produrre lesioni di identità a gruppi sociali e popolazioni (vedi la sfida cristianesimo-islam, lo scontro fra civiltà etc.), cui rispondere con reazioni separatiste.
Molte correnti intellettuali attuali hanno notevolmente lavorato per far passare la contaminazione “rituale” da una connotazione negativa a una positiva, attenuando l’opposizione fra naturale e morale, naturale e culturale, organico e artefatto, in specie nelle accezioni postmoderniste ove il corpo è sempre tematizzato in termini di frontiera fra il sé e l’altro, ma con ampia accettazione della diversità dell’altro esterno tramite le “protesi” tutte che la scienza, la comunicazione, l’arte, la pratica medica o la tecnologia hanno saputo produrre nella modernità. Tutto ciò significa che la nozione occidentale di contaminazione soffre di una interna contraddizione: nata per designare le dinamiche di recupero dei soggetti rispetto ai pericoli culturali maggiormente incombenti, svolge oggi spesso l’opposta funzione di decostruire le “identità forti” e legittimare la tendenza alla “ibridazione” sociale, culturale, artistica.