Ma se con la parola colonialismo si intende o si può intendere un fatto storico, è vero anche che essa designa in modo altrettanto appropriato l’insieme di pratiche, istituzioni e ideologie che hanno costituito o che sono state il prodotto della dominazione coloniale. Alla voce colonialismo vengono connessi – e in modo particolarmente esplicito da parte degli ex-colonizzati – quei sistemi di differenze e disuguaglianze che hanno informato o legittimato le pratiche di subordinazione, segregazione e violenza coloniali: differenza tra bianco e nero o tra bianco e “di colore”, tra civilizzato e selvaggio, progredito e primitivo, sviluppato e sottosviluppato, occidentale e non occidentale ecc.
Cosa designa, invece, il termine postcolonialismo? Non è facile riferirsi, in questo caso, ad un fatto o a un periodo storico. È possibile, certo, individuare –come fanno Robert Young e altri autori – nella conferenza di Bandung del 1955 e nella nascita del movimento dei “paesi non allineati”, l’apparire di un terzomondismo che ha costituito il primo fondamento su cui il postcolonialismo si è costruito; oppure è possibile, come hanno fatto altri ancora, identificare la condizione postcoloniale già nella creolizzazione prodottasi nelle colonie spagnole dell’America Latina, con il conseguente venir meno di un dominio “bianco”. Si può, inoltre, descrivere il postcolonialismo come un fenomeno accademico. Ma è proprio la molteplicità e l’eterogeneità degli inizi possibili a mostrare come la voce postcolonialismo designi un’altra cosa rispetto ad un periodo o a un fatto storico.
Per coglierne i tratti generali bisogna focalizzare quei sistemi di disuguaglianze, quei discorsi e quelle tecniche della dominazione coloniale che ne hanno costituito, per così dire, il contenuto epistemologico. È nella consapevolezza del loro portato storico e ideologico – e dunque dell’iscrizione del colonialismo nel presente – che insorge il pensiero postcoloniale, ovvero l’ondata di studi critici e di pratiche di resistenza chiamata postcolonialismo. Contestazione dell’eredità coloniale, esso deve essere inteso innanzitutto come forma di soggettività che vi si oppone attraverso la messa in discussione delle categorie, delle narrazioni e delle istituzioni che (ri)costituiscono il colonialismo nel presente.
Non sorprende, allora, che il postcolonialismo sia connesso, sul piano teorico, a ciò che viene chiamato post-strutturalismo e alla sua opera di decostruzione delle narrazioni (storiche, politiche, scientifiche) dominanti. In tale connessione ha avuto un ruolo centrale l’opera di Edward W. Said, e in particolare il suo libro del 1978 intitolato Orientalism, dove l’assunzione del metodo archeologico foucaultiano ha permesso di mettere in luce la natura costruita e la funzione retorica dell’ “Oriente” quale elemento costitutivo della coscienza occidentale e del dominio sull’Altro.
Fondamentale, per la nascita degli studi postcoloniali, è stato l’innesto del post-strutturalismo sul progetto di ricerca avviatosi all’inizio degli anni ottanta con i Subaltern studies indiani. Questo è il nome di una serie di volumi collettivi pubblicati, a partire dal 1982, dalla Oxford University Press-Dheli, e curati, nelle loro prime sei uscite, dallo storico bengalese Ranajit Guha Se nel loro primo periodo i Subaltern studies sono stati caratterizzati da una concezione della “storia dal basso” che rimaneva legata, in fondo, alla “grande narrazione” del discorso moderno sull’emancipazione, nella seconda metà degli anni ottanta l’incontro con il post-strutturalismo ne ha generato uno sviluppo radicale in una nuova direzione.
Questo sviluppo può essere riscontrato, ad esempio, nei lavori di Gayatri C. Spivak e Dipesh Chakrabarty, due esponenti tra i più importanti di quest’area di intellettuali indiani. Viene elaborata, infatti, una rottura esplicita con ciò che è rappresentato come il metamodello culturale posto a fondamento della storiografia moderna: un universalismo astratto di matrice borghese e liberale che ha di fatto circoscritto, relativizzato e ridotto all’ordine le forme di insurrezione e di resistenza messe in atto dai subalterni ogni volta che si sono contrapposte alla sua volontà egemonica. Forme inevitabilmente definite irrazionali, religiose o comunitarie nel linguaggio dei dominanti, ma attraverso le quali si è espressa di fatto la coscienza dei dominati. Bisogna allora “provincializzare l’Europa”, come recita il titolo di un libro di Chakrabarty, perché le forme dell’universale che essa ha imposto (e continua a imporre) sono costitutivamente produttrici della subalternità delle masse postcoloniali, ridotte all’attesa infinita di una modernità che esiste solo nell’irraggiungibile futuro narrato dall’ideologia che lo promette, oscurando la realtà della modernità vissuta.
La “subalternità” diventa qui un referente che collega esperienze e soggettività rimaste inaccessibili alla modernità (o da essa escluse) e al suo razionalismo autoritario, includendovi quelle situate nel domestico, nel femminile, nell’affettivo, nella dimensione locale o in quella marginale: il postcolonialismo, in quanto teoria critica, si pone lo scopo di dare loro la parola. È per questa via che, decostruendo le retoriche nazionaliste, esso ne evidenzia i punti di convergenza con le forme di riproduzione del potere proprie dei codici coloniali: potere degli uomini sulle donne, delle istituzioni sui malati, dei rappresentanti sui rappresentati, dei cittadini sui non-cittadini; poteri che si articolano con altri poteri e dominazioni (di classe, casta, religione ecc).
Allo stesso modo, le comunità diasporiche e i migranti che percorrono le città europee e americane, provocando lo “sconfinamento” –secondo un’efficace espressione di Sandro Mezzadra e Federico Rahola- del sistema delle differenze coloniali all’interno delle ex-metropoli (con le relative tecnologie di controllo e di segregazione), impongono su scala globale la necessità di rileggere la relazione tra il progetto coloniale e il presente e contemporaneamente di elaborare le strategie di resistenza da opporvi, aprendo la via a nuove forme di soggettività e a nuove pratiche di liberazione.