È il manufatto protettivo più importante contro le avversità della natura per tutti gli esseri umani, ma allo stesso tempo è percepita come l’ambiente più malsano in cui vivere, il luogo della “malaria urbana”. Queste antinomie sono antiche quanto la città stessa e non sono facilmente risolvibili, poiché esprimono la nostra contraddizione perenne di fronte alla società in cui viviamo. La città risulta dunque essere allo stesso tempo intima e arcana esattamente come tutta la società, e noi siamo incastonati in essa. In ogni era, i molteplici strati della sua complessa realtà rimangono in gran parte celati: ciò che avviene nella “piazza”, direbbe un Guicciardini, non corrisponde a quello che si decide nel “palazzo”, e immagino che questa contrapposizione sia perfettamente comprensibile per chi, come l’urbanista, si trova a dover conciliare quotidianamente l’interesse e le dichiarazioni pubbliche con le dinamiche non sempre trasparenti della decisione politica.
Tutto questo risulta ancora più vero per quanto riguarda la cruciale intersezione tra la città “fisica”, od osservabile, con la città sociologica che non può essere osservata con alcuno strumento basato su radiazioni di onde fisiche, quali che sia la loro lunghezza. È questo il principale puntatore critico che dobbiamo tenere presente nella comprensione del concetto e del fenomeno urbano nel suo insieme. Infatti, da un lato noi vediamo la città fisica e non vediamo quella sociale, ma dall’altro la città fisica è il prodotto della città sociale, senza la quale non esisterebbe, e soprattutto non esisterebbe nelle forme con le quali noi riconosciamo non solo la città – “eist enpòlis”, là è la città – ma quella specifica città, “Istànbul”: e contrariamente dall’antico paesano bizantino che di città ne conosceva solo una, la distinguiamo da Venezia o da Ujung Padang, benché, come si dirà, anche questa identificazione subisce qualche affievolimento della forma contemporanea.
Dall’altro ancora, quell’oggetto, la città fisica, ha influenza cruciale sulla città non osservabile, della quale rappresenta l’habitat. Il punto critico di questo aspetto centrale sta nella circostanza che le regole dell’intersezione, le matrici di transizione o i protocolli di traduzione, comunque si vogliano chiamare, sono ben lontani dall’essere chiari. Mentre esiste una buona tradizione consolidata, che viene dalla storia sociale dell’architettura, di collegamenti plausibili tra forme economico-sociali e forme architettoniche, la conoscenza dei rapporti nell’altro senso riposa ancora sul terreno scivoloso degli assunti non provati degli effetti dell’architettura e della pianificazione sulla “buona società”. La scarsità di studi empirici sul tema ha lasciato il campo al filosofare incontrollato su “architettura e felicità”, a volta a volta dominato dalla moda culturale del momento.
La città racchiude numerose immagini che ci sono familiari: ognuna mostra una specifica sfaccettatura della città fisica, della società non urbana. I nostri occhi ci mostrano costruzioni, vie, automobili e perfino persone, ma non la società urbana. Anche qualsiasi tipo di lente, all’infrarosso, radar o a risonanza magnetica (o di ogni altra specie di sensori di onde o di prodotti chimici), che ci potrebbe senza dubbio aiutare a vedere strati e strati di rappresentazione estremamente dettagliata della realtà fisica, non ci rivelerà mai la società urbana. Per vedere realmente la società urbana, come società in generale, dobbiamo usare un tipo differente di obiettivo o di lente, un obiettivo intellettuale, capace di rilevare simboli, norme e comportamenti simbolici o espressivi, cioè per usare il termine classico di Weber, una lente capace di comprendere (Verstehende).
Quale tipo di prodotto è allora la città, e con quali categorie possiamo distinguerla da altri sistemi complessi? In un breve saggio sulla produzione di organismi mutanti, il biologo Glauco Tocchini-Valentini fornisce un’interessante analisi che chiarisce la differenza tra “un sistema vivente complesso”, sia esso un batterio o un uomo, e altri sistemi complessi che esistono in natura. Soltanto gli organismi hanno la caratteristica essenziale di possedere una descrizione o un progetto interno. Questa è la differenza tra organismi e ambiente. Per esempio, il tempo atmosferico è un sistema complesso che può essere descritto dalle leggi della fisica, e queste leggi ci permettono di fare previsioni sull’evoluzione del sistema. Ma in nessun luogo, all’interno del sistema meteorologico, si riuscirà a trovare il suo “progetto”.
Le città sono entità complesse che possono essere classificate al tempo stesso come sistemi viventi e grandi sistemi fisici. Nessuna città ha al suo interno un Dna che descriva in modo riflessivo il suo futuro sviluppo, sebbene alcune città, al tempo della loro fondazione, siano state progettate e si sviluppino secondo un “piano”. E l’evoluzione di nessuna città può essere descritta da leggi strettamente fisiche, sebbene esistano limitazioni strutturali che anche gli insediamenti più spontanei sono costretti ad accettare. Per quanto questi continui cambiamenti siano profondi e radicali, non bisogna aspettarsi che la vecchia città si sbricioli come le rappresentazioni hollywoodiane vorrebbero farci credere.
La città, dice Anthony Giddens, “mostra una falsa continuità con gli ordini sociali preesistenti”. I cambiamenti sono continui, si presentano come un accrescimento stalagmitico, e ne sperimentiamo le conseguenze immediate sulla nostra pelle, in particolar modo quando questi riguardano le nostre pratiche urbane quotidiane, sempre più insopportabili ed irrinunciabili allo stesso tempo. Il ritmo del cambiamento, che è comunque veloce, è misurato da campioni storici: dove i fenomeni procedono in modo non uniforme, i risultati finali diventano percettibili soltanto a balzi. È facile, scrive Herbert Simon, guardando all’indietro, vedere quanto questi cambiamenti si sono susseguiti inesorabilmente l’un l’altro, e quanto “naturali” fossero le loro conseguenze: suburbia, per fare un esempio, è il risultato di un mezzo di trasporto privato poco costoso.
La questione cambia se ci si chiede fino a che punto è possibile prevedere queste catene di eventi o aiutare a evitare alcuni dei loro risultati più indesiderabili. Il problema non è che manchino i profeti – sono stati numerosi in quasi tutte le epoche e i luoghi – ma piuttosto il contrario: quasi tutto ciò che è accaduto, e il suo esatto contrario, è stato profetizzato. Il vero problema è sempre stato selezionare e scegliere fra le imbarazzanti quantità di futuri suggeriti in alternativa: in questo, le società umane non hanno dimostrato alcuna gran capacità.