Baha’i, quella religione senza diritto (né carta) d’identità
Federica Zoja 5 dicembre 2007

Il Cairo, Egitto

Shady è direttore generale di una società di informatica. Mariah, sua moglie, insegna inglese in una scuola internazionale. Vivono al Cairo, con le loro tre bambine, di cui la maggiore iscritta alla scuola elementare. Una famiglia come tante in Egitto, anzi economicamente sopra la media. Ma dal 2003 ad oggi, l’appartenenza alla fede religiosa Baha’i sta complicando loro l’esistenza, in un crescendo vorticoso di ostacoli burocratici. Quattro anni fa, infatti, le autorità egiziane hanno deciso che gradualmente, ma senza esitazione, le vecchie carte d’identità dei cittadini andassero sostituite con delle nuove, frutto di un sistema anagrafico computerizzato. Una disposizione saggia in un paese che conta oltre 75 milioni di abitanti e nel prossimo ventennio sfiorerà i 100 milioni.

Sulle vecchie carte, però, alla voce ‘religione’ il cittadino egiziano poteva scrivere cristiano, ebreo o musulmano, oppure lasciare in bianco o optare per ‘altro’. Adesso no: “Non il ministro degli Interni, ma qualche funzionario del ministero – racconta Shady Samir Sabhi a ResetDoc – ha stabilito in un memo che non ci sia altra scelta al di fuori dei tre monoteismi”. Si legge nel rapporto recentemente pubblicato da Human Rights Watch e dall’ong l’Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr), che “funzionari del ministero degli Interni impediscono sistematicamente ai Baha’i e ai convertiti dall’Islam di registrare il loro credo effettivo nei documenti di identità”, e, ancora, che “lo fanno sulla base non di una legge egiziana, ma secondo la loro interpretazione della legge islamica, la Shari’a”.

“Fino al 2003 – prosegue Shady – per nessuno nella mia famiglia c’è mai stato problema. Io stesso, che ho trent’anni e rappresento la quarta generazione di Baha’i in Egitto, ho avuto tre carte di identità, di cui l’ultima purtroppo scaduta e mai rinnovata”. Rinnovarla significherebbe necessariamente abiurare il proprio credo, mentire sulla fede di appartenenza. E così, meglio senza identità civile che religiosa, almeno temporaneamente. I Baha’i egiziani non hanno intenzione di rimanere nascosti nelle pieghe di una burocrazia cieca: per vie legali, presso i tribunali amministrativi del Cairo e di Alessandria, lottano per il riconoscimento dei loro diritti civili. Al momento, dunque, i Baha’i egiziani (secondo stime, fra i 2.000 e i 5.000) sono cittadini illegali, tagliati fuori dal servizio sanitario, dal mondo del lavoro, dalla scuola perché privi di documenti. Di conseguenza, niente patente di guida, contratti di proprietà, certificati di morte e quindi eredità, e così via.

“Non avanziamo nessuna richiesta di riconoscimento per la nostra religione, questo deve essere chiaro”, sottolinea Shady Samir. Le prime rivendicazioni sono nate circa un anno fa, “quando una prima coppia Baha’i egiziana ha deciso di ricorrere a un tribunale amministrativo per far avere il passaporto alle proprie figlie. Così, la nostra situazione è arrivata in parlamento. E il governo si è trovato a fronteggiare la pressione dei fanatici, che sono sempre di più in questo paese. Complice l’immagine negativa costruita negli anni dai media, il governo ha riconosciuto il memo ministeriale. Capiamo le difficoltà del governo: se dovesse cambiare idea, e per di più a causa dei Baha’i, si troverebbe in una brutta situazione”. Un caso forse sfuggito di mano all’esecutivo, ma certamente cartina di tornasole dell’intolleranza religiosa crescente nel paese, se si considera che il Baha’ismo è presente in Egitto fin dai tempi della sua nascita, un secolo e mezzo fa: “C’è sempre meno tolleranza – riferisce Mary, cittadina americana e moglie di Shady, anche se il loro matrimonio Baha’i non è riconosciuto in Egitto – Non è una cosa che si possa toccare, è intangibile, ma esiste. La gente ti chiede il nome e se da quello non capisce la tua religione chiede anche il secondo, e via dicendo”.

Eppure Mariah vive in un ambiente per così dire ‘protetto’, lavora in una scuola internazionale: “Ho studenti africani, asiatici, nessun egiziano perché il curriculum di studi non è riconosciuto dallo Stato. Ma i colleghi insegnanti sono egiziani. A volte, appena giro le spalle sento che alcuni parlano male di me, della mia fede. D’altronde, sono il riflesso della società”. “Anche i musulmani però si lamentano dell’intolleranza crescente – evidenzia il marito – tutti i moderati ne soffrono”. Un’odissea personale la famiglia Samir l’ha già vissuta la scorsa estate, quando per lasciare il paese per una vacanza negli Stati uniti, Mariah e la seconda figlia hanno dovuto chiedere aiuto all’ambasciata americana. La piccola Farida, infatti, “non esisteva”: nessun certificato di nascita, come se fosse arrivata da Marte in Egitto su una navicella spaziale. Al momento della nascita, meno di quattro anni fa, non c’era stato verso di registrarla all’anagrafe.

Il suo caso, terminato positivamente, ora è destinato a fare scuola: gli egiziani Baha’i figli di un genitore straniero potranno chiedere un documento ‘straordinario’ al ministero degli Interni e così ottenere un passaporto alla rappresentanza diplomatica straniera in Egitto. Insomma, eterni turisti nel loro paese di appartenenza. Le diffidenze nei confronti dei Baha’i hanno comunque radici politiche, legate alla loro città santa, Haifa: un legame con Israele che li rende da sempre potenziali spie nei paesi arabi in cui risiedono. “Eppure nessun Baha’i arabo si reca in visita ad Haifa – ricorda Shady – E’ proibito proprio da Bahà-u-llàh, per evitare di infiammare ancora di più le tensioni fra israeliani e mondo arabo”.

Nonostante le difficoltà, per Shady e Mariah l’Egitto rimane un buon paese in cui crescere le bambine: “E’ vero, la grande ha già vissuto degli ‘incidenti’ a scuola – commenta Mariah – e io sono terrificata dall’intolleranza. Ma credo che anche negli Stati Uniti ci siano dei problemi, seppure diversi. Anche là è tutto ‘polarizzato’: sei pro o contro la vita, per l’ambiente oppure no. Qui, una rete di legami famigliari e comunitari ci fa sentire protetti”. Poi, per fare chiarezza e non rischiare l’accusa di tradimento nei confronti del proprio paese, Shady conclude: “Troveremo una soluzione con il nostro governo, non chiediamo coinvolgimento di organi esterni, né interferenze straniere. Inoltre, i Baha’i non fanno proselitismo”.