Il principe Lazar e il sultano Murat stanno ancora lì a sfidarsi. L’uno dirimpetto all’altro, sullo stesso posto dove sei secoli e una manciata d’anni fa si affrontarono, cadendo entrambi, nella battaglia di Kosovo Polje. Siamo a Gazimestan, una piccola contrada alle porte della capitale kosovara. La grande torre dedicata a Lazar svetta su questo minuscolo borgo, dominando l’ampia pianura dove gli eserciti serbo e turco si scontrarono. Gazimestan offre al visitatore le immagini tipiche dei tanti paeselli della regione flagellati dalla povertà: qualche modesta casupola con aiuole dove convivono polli, cani e maiali, un piccolo negozio di alimentari, uno sfasciacarrozze e un lungo rettilineo d’asfalto, ai bordi del quale passeggiano bambini e bambine, incuranti delle automobili e dei furgoni che sfrecciano a notevole velocità.
Il perimetro del memoriale al principe ospita una piccola caserma, presidiata dai militari slovacchi. Il tassista albanese che accompagna il cronista sul posto si lamenta. “Se hanno messo qui gli slovacchi, significa che il Kosovo non otterrà l’indipendenza”. In effetti Bratislava, governata da una destra populista che teme (senza motivo) che la piena sovranità di Pristina alimenti pulsioni secessioniste tra l’ampia minoranza ungherese che popola il meridione slovacco, è una delle nazioni europee ostili all’indipendenza kosovara, insieme a Spagna, Grecia, Cipro e Romania. Ma questa è una delle tante sfumature diplomatiche della vicenda kosovara, un complicatissimo rompicapo internazionale. Quella di Lazar è una storia che ha invece un risvolto intimamente culturale. Per i serbi la battaglia di Kosovo Polje ha lo stesso valore delle Termopili. Così come gli spartani si immolarono per salvare la Grecia, così la Serbia decretò la propria fine per salvare l’integrità dell’Europa cristiana e rallentare l’avanzata dell’impero ottomano verso il cuore del vecchio continente.
Murat fu uno dei primi sultani a dare l’assalto ai Balcani. Ucciso come narra la leggenda dal guerriero serbo Obilic, introdottosi furtivamente nell’accampamento turco, il sultano venne sepolto a Gazimestan. Lì il suo corpo è rimasto. Il cuore è stato invece portato a Istanbul. I resti del sultano giacciono all’interno di un massiccio sarcofago, piantonato da sei secoli a questa parte dalla stessa famiglia, della quale Sanja, che ci riceve cordialmente, è l’ultima discendente. La torre di Lazar e il sepolcro di Murat. La collocazione di questi due luoghi di memoria, simboli di storie e fedi differenti, riflette è una delle tante variabili di quell’incredibile impasto di sentimenti e miti che animano questo turbolento fazzoletto di terra balcanico. Sull’epopea di Kosovo Polje, le Termopili serbe, Belgrado fa leva per rivendicare la sovranità sul Kosovo. Correva l’anno 1389. La Serbia, dopo un breve ma intenso periodo di splendore segnato da progressive conquiste territoriali, andava disgregandosi. La morte di re Dusan aveva innescato una sanguinosa guerra di successione. L’impero ottomano, con la sua efficiente macchina da guerra, cercava invece di farsi largo nei Balcani. Dilaniata dalle lotte per il potere, la Serbia era una facile preda. A Kosovo Polje vinsero infatti i turchi, che poi risalirono lentamente la penisola balcanica, inglobando chilometri quadrati di terre dopo chilometri quadrati di terre e arrivando a cingere d’assedio Vienna, nel 1529 e nel 1683.
Lazar Hrebeljanovic, nobile che era riuscito a coagulare intorno alla sua figura le armate della regione, non riuscì a contenere gli ottomani. Volutamente. Perdere e morire sul campo di battaglia fu una sua personale decisione. Almeno stando alla leggenda, che divora la realtà e il canovaccio di quella sfida, che con ogni probabilità vide i serbi sopraffatti da un esercito più potente, nei numeri e nelle risorse.
Il punto è che l’epica di Kosovo Polje è talmente sedimentata nella coscienza dei serbi che poco conta la reale dinamica di quegli eventi. È la leggenda a farla da padrona e la leggenda vuole che Lazar, prima di ingaggiare lo scontro con le armate del sultano, venne interpellato dall’arcangelo Elia, apparsogli sotto le sembianze di un falcone. Elia chiese al principe di scegliere: la vittoria e il regno in terra o la sconfitta e la gloria eterna. Lazar decise per la seconda opzione, volle rendere immortale il suo nome.
Da allora sono stati spesi fiumi di inchiostro per ricordare il martirio di Hrebeljanovic, mitizzato nei canti e nei poemi popolari. Prima in sordina, poi con sempre maggiore continuità e vigore. Il salto di qualità arriva nel XIX secolo, quando il principato serbo, dopo quasi cinque secoli di dominio turco, si ricostituisce come nazione e punta a espandersi territorialmente. Bloccata a settentrione e a occidente dagli Asburgo e a oriente da una Istanbul decadente ma ancora temibile, Belgrado decise di avanzare verso sud. Verso il Kosovo. L’operazione politico-militare necessitava di un sostegno ideale e la battaglia di Kosovo Polje era quanto di meglio la tradizione, storica e letteraria, potesse offrire. La mitologia di Kosovo Polje divenne parte integrante del lessico del politico espansionista di Ilija Garasanin, allora l’uomo forte di Belgrado, procrastinandosi fino ai giorni nostri. Fino all’epoca di Slobodan Milosevic. Anch’egli, come Garasanin, piegò il Kosovo al potenziamento della Serbia. Nel 1989, nel seicentesimo anniversario della battaglia, Milosevic si recò a Gazimestan e davanti a più di un milione di serbi pronunciò – pochi giorni dopo avere revocato a Pristina il rango di provincia autonoma – un discorso infarcito di sciovinismo, che per gli storici fu l’orazione funebre della Jugoslavia e lo sdoganamento dell’ideale di Grande Serbia.
Ma Kosovo Polje non è comunque l’unico appiglio con cui Belgrado può rivendicare la sovranità su Pristina. Il Kosovo è anche dal punto di vista della tradizione religiosa legato a filo doppio alla storia serba. Il monastero di Pec (Peja in albanese), città occidentale della regione addossata al confine con Albania e Montenegro, è ancora oggi la sede spirituale della chiesa serba. Il patriarca riceve qui la propria investitura e porta il titolo di “metropolita di Belgrado, vescovo di Pec e patriarca dei serbi”, spiega padre Ilarion, uno dei monaci del vicino monastero di Decani, edificio dal grande significato storico-religioso, protetto dai militari italiani inquadrati in Kfor (la missione di pace della Nato), che ci accompagnano nella visita. I monasteri di Decani e Pec vennero edificati nel XIII secolo, dopo che padre Sava, fratello del re Stefan Nemanja, ottenne dal patriarcato di Costantinopoli il riconoscimento dell’autocefalia. Cosa assai importante, dal momento che nel mondo ortodosso l’autocefalia coincide con il concetto di nazione e porta con sé l’implicito riconoscimento di sovranità. Durante il Medioevo i monasteri serbi del Kosovo furono centri di irradiazione culturale e tanto la risoluzione 1244 del consiglio di sicurezza dell’Onu quanto il recente piano Ahtisaari sul futuro assetto politico della regione conferiscono agli edifici religiosi serbi presenti nel Kosovo il diritto all’extraterritorialità, una forma di tutela per preservarne l’esistenza e riconoscerne il valore storico-culturale.
Ciò suscita perplessità tra i nazionalisti albanesi del Kosovo, i quali argomentano che l’extraterritorialità è solamente una maniera per consentire a Belgrado di continuare a mantenere una propria “guarnigione” in territorio kosovaro. Una tesi un po’ forzata, che riflette l’approccio degli albanesi verso la presenza di radici storico-culturale serbe nella regione. Approccio violento, come dimostrano i pogrom antiserbi del 17 marzo del 2004, che portarono alla distruzione di 36 edifici religiosi. La radicalità degli albanesi è dovuta in parte all’assenza di riferimenti storici da opporre alla Serbia. La questione dell’identità islamica del Kosovo è poco spendibile. Una piccola parte dei kosovari albanesi ritiene che la turchizzazione dei Balcani, iniziata con Murat, corrisponda all’inizio della fine della cultura cristiana nel Kosovo. A Pristina come in altre aree balcaniche soggette alla dominazione turca la fede musulmana è predominante. Ma le gradazioni sono diverse. C’è infatti una certa differenza tra la Bosnia e la laicità dei territori a maggioranza albanese, Kosovo incluso. Quello di Pristina e di Tirana è un Islam di facciata, debole. In Kosovo, tanto per intenderci, le organizzazioni islamiche che dopo la guerra hanno finanziato la ricostruzione delle moschee, non hanno più intenzione di scucire un solo quattrino per i kosovari, reputati blasfemi e senza fede. La stessa Sanja, la guardiana della tomba di Murat, bada bene a distinguere il suo gruppo etnico (i bosgnacchi, i musulmani bosniaci) dagli albanesi, sottolineando come siano i primi “gli unici custodi dell’Islam balcanico”.
Anche la tradizione illirica, valorizzata dagli storici militanti di Pristina, per i quali la presenza albanese nei Balcani è anteriore a quella serba, si rivela debole per sostenere culturalmente la causa indipendentista. L’ultima teoria, professata dai circoli vicini all’ex presidente Ibrahim Rugova (morto nel 2006) è invece quella di chi ritiene che l’Islam sia un incidente della storia e che la cultura albanese affondi le proprie radici nel passato, nella storia cristiana della Dardania, nome dell’antica provincia romana corrispondente grosso modo all’attuale territorio kosovaro. Ma anche questa dottrina ha mostrato i suoi lati deboli, essendo stata sconfessata dalla popolazione, che spesso ha bollato come fantasiosa la politica culturale di Rugova. La domanda che sorge spontanea è: a chi appartiene il Kosovo? Ai serbi, che hanno di fatto perso la culla della propria identità nazionale a causa della politica scellerata di Milosevic? Oppure agli albanesi, che puntano senza troppi fronzoli a sradicare dal territorio ogni traccia di cultura serba? La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Il Kosovo appartiene ai 100mila serbi e ai 900mila albanesi che vivono in questa martoriata nazione e che aspirano a una vita tranquilla, a un posto di lavoro (la disoccupazione sfiora il 70 per cento) e alla riconquista della convivenza etnica, distrutta da Milosevic, impedita dai vecchi comandanti dell’Uck che hanno conquistato il potere a Pristina e ostacolata da un piccolo e agguerrito manipolo di pensatori radicali e liberi battitori che vede nella storia, piuttosto che una base su cui riconciliare il Kosovo, uno strumento per prolungare le tensioni.