Il risultato è che il reato di ingresso o permanenza irregolare nel territorio dello Stato, meglio noto come reato di immigrazione clandestina, non ha fatto aumentare le espulsioni. Solo un denunciato su cinque è stato espulso, con percentuali anche minori a seconda delle nazionalità. Un esito modesto che testimonia come «la facilità con cui gli stranieri vengono effettivamente espulsi non dipende dalla severità delle norme, ma quasi esclusivamente dalla possibilità di identificarli e dall’ottenimento della collaborazione delle autorità dei paesi di origine».
È quanto scrive il sociologo Asher Colombo nel saggio Fuori controllo? Miti e realtà dell’immigrazione in Italia (il Mulino 2012) nel quale le politiche di controllo dell’immigrazione irregolare sono analizzate dati alla mano, paragonate con il contesto europeo, lette senza filtri ideologici e senza schieramenti preconcetti. L’autore punta i riflettori sulle recenti politiche restrittive adottate e dimostra che, lungi dall’ottenere gli esiti che si prefiggevano, queste si inseriscono in un contesto europeo e internazionale nel quale sono fondamentali i rapporti con i paesi di origine degli immigrati, il ruolo delle regolarizzazioni di massa, le pronunce della magistratura, della Corte Costituzionale, della Corte di Giustizia Europea, il contesto giuridico che arriva dall’Europa. Il risultato evidenziato è che a norme severe seguono applicazioni pratiche molto modeste, che i Centri di identificazione ed espulsione sostanzialmente non funzionano, che a partire dal 2004 la capacità di allontanare gli stranieri in condizione di irregolarità «non solo non è cresciuta, ma anzi ha continuato a ridursi, con il risultato che per la prima volta esiste fortemente il rischio di costituire un serbatoio non prosciugabile di immigrazione irregolare che non può essere sanata né espulsa».
L’analisi dell’autore parte dalla considerazione che in Europa il passaggio di grandi masse di immigrati dalla condizione di irregolarità a quella di regolarità è avvenuto soprattutto con le regolarizzazioni da un lato, e con i processi di ampliamento dell’Unione europea (in Italia, fondamentale l’allargamento a Est) dall’altro. «Le sanatorie – scrive Colombo – sono state per sessant’anni di storia europea una delle principali politiche di controllo delle migrazioni». L’andamento dei controlli esterni e della pressione alle frontiere è a sua volta legata alla «trasformazione degli Stati confinanti in agenti del controllo esterno delle frontiere». Molto dipende dall’esistenza di accordi di collaborazione con gli Stati di partenza degli immigrati, tanto che l’effettiva capacità di dar seguito alle espulsioni non dipende solo dalla severità delle leggi né dall’efficienza delle strutture di controllo, ma è legata soprattutto alla collaborazione dei paesi di riammissione e di transito del cittadino straniero che viene espulso. «Questa collaborazione è tutto fuorché scontata», evidenza il sociologo. Un ruolo fondamentale è allora svolto dall’esistenza di accordi di riammissione, tanto è vero che nei Centri di identificazione ed espulsione finiscono quegli stranieri per i quali esiste una possibilità di rimpatrio.
Particolarmente significativa è proprio l’analisi dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La durata massima di permanenza è stata portata a 18 mesi e queste strutture, nelle quali si applica la “detenzione amministrativa”, vanno verso una maggiore percentuale di espulsioni ma su un numero più ridotto di ingressi. In pratica, scrive Colombo, «maggiore severità verso un numero più ristretto di trasgressori». In realtà i Cie sono strutture fondamentalmente ambigue e opache, che nascono come strumento per espellere gli irregolari ma finiscono per rispondere anche a una domanda di controllo e contenimento della criminalità che arriva dalla società civile, senza svolgere davvero nessuna delle due funzioni. Non solo. L’identikit di chi arriva in un Cie è molto particolare. Intanto, non vi entrano coloro per i quali la possibilità di rimpatrio è nulla – ad esempio, persone originarie di nazioni che non prevedono accordi bilaterali. Vi entrano invece, più frequentemente, stranieri irregolari che hanno commesso reati, sbandati che non hanno commesso reati ma sono semplicemente incappati più volte nei controlli, e persone legate a qualche tensione sociale, come le prostitute. Scrive l’autore del saggio: «I Cie riescono a malapena a svolgere una piccola parte della loro funzione manifesta, perché abbiamo visto che oggi oltre tre quarti di coloro che vi entrano escono non per essere espulsi, ma per decorrenza dei termini, per motivi di salute, per una sanatoria, perché il loro trattenimento non è convalidato dall’autorità giudiziaria, in qualche caso per essersi «allontanati arbitrariamente». Stando così le cose è difficile pensare che i centri riescano a svolgere le funzioni latenti che vengono loro attribuite, o almeno che le riescano a svolgere in misura soddisfacente per chi le auspica o le richiede. Solo meno di un quarto degli immigrati irregolari per i quali le questure lo richiedono varcano la soglia di un Cie».
L’autore non manca di ripercorrere gli sbarchi del 2011 provenienti da Tunisia e Libia, le fratture dell’allora maggioranza di governo sulle modalità di gestione dell’emergenza, la crisi con la Francia seguita alla concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per arrivare alla considerazione che le politiche migratorie nazionali devono tener conto delle strutture giuridiche europee, del contesto normativo sovranazionale (come la sentenza della Corte di Giustizia europea del 2011 che «ha di fatto depenalizzato la non ottemperanza dello straniero irregolare all’ordine del questore di uscire dal paese») e quindi di un contesto europeo nel quale, seppure l’Europa non svolge ancora un ruolo leader e centrale, esistono infrastrutture di controllo e riferimenti giuridici europei validi per tutti i paesi appartenenti, e dunque vincolanti.
A fronte dei proclami di rigidità, le politiche migratorie si muovono in un contesto molto magmatico e incerto. Per non parlare del ruolo fondamentale dell’economia, del fatto che – argomenta Colombo – gli immigrati in Italia svolgono quei bad jobs – «dirty, demanding, dangerous ovvero sporchi, gravosi e pericolosi» – richiesti dalla nostra economia. E che i controlli non si sono mai concentrati sul mondo del sommerso, che tanta parte gioca nell’intero assetto economico italiano. «Il peso rilevante del sommerso nella nostra economia – scrive l’autore – e l’elevata presenza straniera in questo specifico segmento del mercato del lavoro spiegano perché le politiche di controllo interno, per quanto severe, si siano sempre arrestate ai confini delle grandi campagne del Sud dove gli africani raccolgono i pomodori, fuori dai cancelli dei cantieri edili delle grandi città sulle cui impalcature camminano e lavorano i manovali di diversa provenienza, alla soglia delle case private in cui badanti dell’Est Europa si prendono cura dei nostri anziani, e colf filippine e peruviane dei nostri spazi domestici».
Se questo è vero, ed è vero, alzare il prezzo e il rischio dell’irregolarità non rappresenterà mai una politica di controllo né di gestione dell’immigrazione, e rischia di confondere il dibattito pubblico rendendolo opaco e disinformato. Che poi è quello che da sempre una certa brutta politica fa, limitandosi a spararle grosse per non attuare scelte più coraggiose, o quantomeno coerenti.