Assad, la repressione mascherata dagli annunci di amnistia
Ilaria Romano 16 gennaio 2012

Gli osservatori della Lega Araba si preparano a comunicare il rapporto sulla situazione della Siria, che sarà discusso nella riunione dei Ministri degli Esteri il prossimo 22 gennaio. Nel frattempo il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha lanciato un appello a Bashar Al Assad perché cessi di “uccidere il suo popolo”. Intervenuto ad una conferenza a Beirut sulla democratizzazione dei paesi arabi, il rappresentante dell’Onu ha definito la repressione come “un vicolo cieco, che non servirà a far cessare il vento di cambiamento”. Un messaggio al regime di Damasco sollecitato anche dalla presenza allo stesso incontro del Ministro degli esteri francese Alain Juppé, che ha parlato di “silenzio intollerabile del Consiglio di Sicurezza”, e da Ahmet Davutoglu, rappresentante degli esteri in Turchia, uno dei  paesi che più si sono esposti contro Assad.

Nel paese intanto la repressione continua, mascherata dal regime e dalle fonti di informazione governative. Secondo quanto riportato dall’agenzia Sana, le città del paese si riempiono di manifestanti pro-governo, e inneggiano al presidente e alla sua stagione di riforme. Una delle principali e più recenti notizie è la decisione di Assad di concedere un’amnistia generale per gli arrestati dal 15 marzo del 2011 in poi, per violazione delle pacifiche manifestazioni. “L’amnistia – recita l’articolo-comunicato pubblicato il 15 gennaio – stabilisce che ci sia un’opportunità per non ripetere gli errori contro il paese e i cittadini, nella speranza che la sicurezza in Siria sia ristabilita”.  

Una decisione che fa seguito al discorso pubblico di Assad, pronunciato il 10 gennaio, allo scopo di far apparire ancora una volta le opposizioni come singoli o gruppi di terroristi, burattini armati dal “complotto straniero”, che non hanno a cuore il bene del paese. Una strategia costruita giorno per giorno, anche attraverso le immagini dei funerali delle vittime militari, delle manifestazioni “lealiste”, del silenzio sul reale numero di vittime di questi dieci mesi, soprattutto civili, e degli arrestati. Ma al di là degli slogan il regime di Bashar Al Assad è ancora saldo, mentre le opposizioni rappresentate principalmente dal Consiglio Nazionale Siriano e dal Comitato di Coordinamento Nazionale restano divise su molte questioni: il CNS di Burhan Ghalioun, professore alla Sorbona, non intravede nessuna possibilità di dialogo con il governo, e manifesta al suo interno alcune correnti favorevoli ad un eventuale intervento militare in Siria; il CCN di Hassan Abdel Azim resta invece possibilista rispetto all’apertura di una fase di dialogo e assolutamente contrario ad ingerenze esterne. Le due formazioni, che rappresentano le opposizioni all’estero e in patria, erano comunque riuscite ad accordarsi su alcuni principi comuni, e nel dicembre scorso avevano firmato un documento congiunto da sottoporre alla lega Araba, ma poi l’incontro non c’è stato. Nel frattempo però la Lega ha inviato i suoi osservatori nel paese, ma la missione è stata tutt’altro che un successo. L’osservatore algerino Anwar Malek è stato il primo a lasciare il suo incarico e a denunciare pubblicamente i crimini delle autorità siriane contro la popolazione: “la missione della Lega Araba – ha detto Malek davanti alle telecamere di Al Jazeera – offre al regime di Damasco più tempo per uccidere e non è in grado di fermare la repressione in corso da dieci mesi”.

L’uomo ha accusato esplicitamente il regime siriano di aver deviato appositamente il convoglio degli osservatori lungo la strada Homs-Damasco, per esporlo intenzionalmente ad un attacco armato. Ha poi raccontato di aver visto corpi senza vita con segni di violenze, case bombardate, e di aver visitato un carcere dove i prigionieri sono tenuti a digiuno e torturati. Ha poi raccontato dei tentativi di depistaggio messi in atto dalle autorità, che avrebbero cambiato i nomi delle strade al loro passaggio, oppure organizzato manifestazioni estemporanee radunando militari in abiti civili per farli inneggiare ad Assad davanti agli occhi della Lega Araba. Dopo di lui anche un altro osservatore ha deciso di parlare, seppure in anonimato, con l’agenzia Reuters, e ha annunciato di avere intenzione di abbandonare la missione perché poco chiara e non utile ai cittadini.

Il centro di Documentazione delle violazioni in Siria ha diffuso le cifre sulle vittime della repressione, poi pubblicate dal sito SiriaLibano. I dati sono aggiornati all’8 gennaio 2012 e parlano di 6mila e 62 morti, dei quali 4mila 923 civili e mille 139 fra militari e agenti. Fra i civili ci sarebbero 406 bambini e adolescenti, 149 donne. Secondo l’organizzazione internazionale Avaaz, che recentemente ha pubblicato anche un report sui centri di detenzione in Siria, le vittime invece sarebbero 6mila 237. L’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR ha invece diffuso i dati sui profughi siriani fuggiti in Libano, circa 7mila persone e in Turchia, 7mila 660 persone.

Per il prossimo 22 gennaio il segretario generale della Lega Araba Nabil Al Arabi non ha escluso che fra i temi di dibattito potrebbe esserci anche la possibilità di inviare truppe arabe per fermare lo spargimento di sangue in Siria. Ma altre voci come quella del presidente dell’assemblea tunisina Moncef Marzouki hanno smentito un’ipotesi di questo tipo.

Sul fronte europeo intanto è stata la Francia a risollevare la questione siriana, dopo la morte del reporter Gilles Jacquier: la procura di Parigi ha aperto un’inchiesta per omicidio volontario per far luce sul caso. Troppi elementi che non quadrano sull’attacco al convoglio di giornalisti accreditati e dunque noti al governo siriano; fino a pochi istanti prima dell’esplosione, secondo France Télévision, scortati dai militari.