Siamo a Gerusalemme, terra di tutti e di nessuno, dove i campi della scuola Hand in Hand hanno accolto una partita di basket organizzata da Peace Players International (PPI) nella quale ragazze palestinesi hanno sfidato coetanee israeliane. PPI si propone di costuire un futuro di pace, compiendo piccoli passi e partendo dal basso. “Un ragazzo israeliano che ha partecipato ad un nostro torneo quando si troverà nell’esercito guarderà un palestinese che si approccia al check point con occhi diversi” spiega Karen Doubliet di PPI. Questa speranza, anzi certezza è condivisa pienamente da Hand in Hand che ha fatto di questa speranza la sua ragione di vita.
Il centro di istruzione ebraico-araba Hand in Hand è stato fondato nel 1997 in Israele per promuovere un nuovo modello didattico di istruzione bilingue e pluriculturale, nel quale bambini ebrei ed arabi potessero vincere la segregazione studiando insieme e alla pari. Dai 50 iscritti del primo anno si è passati ai quasi mille attuali, distribuiti nelle tre sedi della scuola a Misgav, Wadi Ara e Gerusalemme.
Per realizzare gli obiettivi che si pone, anche lo staff è composto da coordinatori arabi e israeliani ed anche all’interno delle classi lavorano e si affiancano docenti di entrambi i gruppi. Oltre al bilinguismo, lo scopo è quello di permettere ai bambini di apprendere le rispettive culture, storie ed esperienze, rafforzando allo stesso tempo la propria identità religiosa, etnica e culturale, sia essa ebraica, cristiana o musulmana.
Queste scuole poi cercano di costruire ponti all’interno della società. La maggior parte delle famiglie in Israele manda i propri figli in scuole segregate: arabi da una parte ed ebrei dall’altra e questa netta distinzione tende ad evidenziare i punti di rivalità invece di creare occasioni di incontro. Nelle classi di Hand in Hand invece gli alunni oltre a studiare la storia della democrazia sui libri imparano a viverla sulla loro pelle ed apprendendo la storia e la cultura degli altri coetanei, iniziano già da piccoli a vivere in un contesto dove esistono molte differenze, complessità e contraddizioni.
“Non posso immaginare che la gente continui a farsi la guerra solo perché non ascolta l’altro” dice Fatima, bambina palestinese che stringe la mano alla sua compagna di banco, israeliana. “Nessuno ci separerà mai.” “Mi dispiace sapere che i nonni di Fatima hanno perso la loro casa nel ’67, ma non è colpa mia” ribatte l’amica che si sente in parte in colpa degli errori compiuti dal suo governo. “Se tutti venissero in queste scuole ci sarebbero persone pronte a negoziare seriamente” spiega una maestra di religione ebraica. “Io cerco di fare capire anche agli arabi che la loro maestra gli vuole bene, ma a volte ci sono problemi anche lessicali. Quando da Gaza partono attacchi suicidi sui territori israeliani per esempio. I palestinesi parlano di martiri e gli israeliani di terroristi. Noi accettiamo entrambe le parole, ma ci ragioniamo insieme perché anche noi siamo pienamente coinvolti dalla questione. Ci sono poi altri problemi. Quando esco da scuola e torno a casa la mia vita diventa complicata. Nella mia comunità non tutti accettano quello che faccio” aggiunge rammaricata mostrando che ci sono ancora resistenze da combattere.
È chiaro che, da sole, queste scuole, che intendono allargarsi su tutto il territorio israeliano, non possono fare molto, ma “cerchiamo di creare ragazzi con la mente aperta al dialogo, priva di pregiudizi verso l’altro e critica” spiega il direttore. “Abbiamo introdotto classi di leadership. La nostra speranza è che su questi banchi si formino i politici e negoziatori del futuro”.