Tra Europa e Turchia: dove vanno i Balcani?
Intervista a Stefano Bianchini, presidente dell’Istituto per l’Europa centro-orientale e balcanica di Forlì 14 settembre 2011

Nel 1991 crollava la Jugoslavia. Nel peggiore dei modi: con le guerre. Il primo conflitto, scoppiato a giugno, fu quello tra Slovenia e Serbia. Si concluse dopo appena dieci giorni con l’indipendenza di Ljubljana.

Il secondo, tra Serbia e Croazia, esplose contemporaneamente e registrò le stesse dinamiche: Zagabria dichiarò la propria uscita dalla Federazione jugoslava, Belgrado rispose con le armi. La differenza la fecero il tempo e l’intensità degli scontri. La guerra serbo-croata, infatti, fu caratterizzata da gravi devastazioni e si chiuse soltanto nel 1995, quando l’esercito di Zagabria, dopo una fase segnata dal cessate il fuoco, riassunse il controllo dei territori della Repubblica di Krajina, l’entità serba creata da Belgrado all’interno dei confini croati.

Dopo Slovenia e Croazia fu la volta della Bosnia, dove la guerra, iniziata nel 1992 e terminata tre anni più tardi, fu ancora più violenta. Serbi, musulmani e croati, i tre gruppi nazionali della Bosnia, si affrontarono gli uni con gli altri senza pietà e sul campo rimasero più di 100mila vittime.

La saga bellica, nei Balcani, è continuata in Kosovo, tra il 1998 e il 1999. Quella guerra ha chiuso il decennio dei conflitti balcanici, ponendo le basi affinché Pristina, il 17 febbraio 2008, a dieci anni dall’inizio degli scontri, dichiarasse la propria secessione dalla Serbia.

L’indipendenza kosovara è stato l’ultimo atto del processo di disgregazione dell’ex Jugoslavia. Oggi, al posto dell’antica patria comune degli slavi del sud ci sono sette nazioni. Oltre alle già citate Slovenia, Croazia, Bosnia e Kosovo, alle quali ovviamente va aggiunta la Serbia, anche Macedonia e Montenegro hanno ottenuto il rango di paesi sovrani, senza tuttavia spargimenti di sangue. La prima alla fine del 1991, il secondo nel maggio del 2006.

Ci si può chiedere: a vent’anni dalla morte della Jugoslavia com’è la situazione nei vari stati che ne hanno raccolto l’eredità? Quali sono le prospettive di integrazione in Europa e quanto pesa la memoria delle guerre? L’abbiamo chiesto a Stefano Bianchini, ordinario di Storia dell’Europa orientale all’Università di Bologna e presidente dell’Istituto per l’Europa centro-orientale e balcanica di Forlì.

Spesso si afferma che le guerre jugoslave furono originate dalla questione etnica. C’è in realtà qualcosa di più complesso alla base dei conflitti?

La questione etnica fu usata ai fini della mobilitazione dei consensi. Ma nel merito delle ragioni delle guerre bisogna considerare altri fattori, come la lunga crisi economica in Jugoslavia negli anni ’80, l’erosione dell’ideologia comunista e la volontà delle élite di conservarsi al potere. Serbi, sloveni e croati erano d’accordo sullo scioglimento della Federazione. Il problema era che non trovarono l’intesa su come e quando procedere. È questo che ha fatto scoppiare la guerra. Il tema identitario è stato una conseguenza. È servito, appunto, a mobilitare.

C’è chi dice che la Jugoslavia era una nazione troppo disomogenea e “artificiale”, che non poteva durare a lungo. È d’accordo?

Assolutamente no. Se la Jugoslavia fosse stata una creatura artificiale sarebbe implosa subito. Per distruggerla ci sono voluti dieci anni di guerre. La Jugoslavia era in realtà qualcosa di più forte di quanto non possa sembrare. Ancora oggi, del resto, ci sono legami economici, politici, culturali e familiari tra i suoi ex tronconi.

A questo proposito il giornalista britannico Tim Judah ha recentemente evocato il concetto di “Jugosfera”, spiegando proprio che c’è ancora un minimo comune denominatore tra le ex repubbliche jugoslave e che negli ultimi tempi il dialogo, fino a ieri poco sviluppato, ha preso quota.

Il termine Jugosfera ha senso e nei Balcani la disponibilità a cooperare e a sviluppare progetti comuni dal punto di vista economico, creando una sorta di mercato regionale, c’è. Anche perché, nell’epoca della globalizzazione, nessuno dei paesi della regione sarebbe competitivo senza intese o collaborazioni con i vicini. Ma la situazione rimane comunque contraddittoria. La memoria non è stata curata e gli strascichi dei conflitti alimentano le divisioni. Oltre a questo c’è da dire che senza la “condizionalità” dell’Europa questi passi in avanti, forse, non sarebbero arrivati. O meglio, avremmo dovuto attendere ancora prima di vederli.

Quanto incide la prospettiva europea sul contesto post-jugoslavo?

Nei Balcani la condizionalità e il soft power dell’Ue hanno funzionato. Senza prospettiva comunitaria la regione rimarrebbe esposta a conflitti crescenti. I recenti progressi nei Balcani si devono a questo. Allo stesso modo, anche i futuri passi in avanti si misureranno sulla base del fattore europeo. Ma è qui che sta il punto. Bisogna capire come, prossimamente, il processo di integrazione europeo potrà dispiegarsi. La spinta all’integrazione è stata forte fino alla fine degli anni ’90. Adesso però è ferma. Ne consegue che la capacità attrattiva di Bruxelles si è ridotta. A questo va aggiunta la crisi economica, che potrebbe diluire ulteriormente l’essenza e la tenuta dell’Europa. Non c’è dubbio che la prospettiva comunitaria è la miglior carta per costruire pace e cooperazione nell’ex Jugoslavia. Ma l’Europa, come detto, sconta una crisi di valori e risente della congiuntura economica. Questo rischia di ripercuotersi al suo interno, come nei rapporti con i Balcani.

Quali sono le situazioni più complicate della regione post-jugoslava?

Macedonia, Bosnia e Kosovo hanno i loro problemi, in termini di stabilità e integrazione tra maggioranze e minoranze etniche. È questo l’arco di profonda tensione. Ma questa è anche l’area dove si sta sviluppando una crescente influenza turca. Su tale aspetto bisogna riflettere attentamente.

La Turchia può favorire il consolidamento nei Balcani, ma solo se il dialogo tra Ankara e l’Europa non accuserà passaggi a vuoto. Insomma, se la prospettiva europea per la Turchia continuerà a essere coltivata l’influenza del paese anatolico nei Balcani può essere un fattore positivo. Altrimenti, se l’Europa terrà la Turchia a distanza, come sta accadendo, si potranno aprire scenari complessi. Ma siamo di nuovo al punto d’inizio: l’Europa, oggi, ha perso la spinta all’integrazione e più dura la crisi economica, più a Bruxelles saranno a corto di idee sul futuro, più nei Balcani la situazione rimarrà spigolosa.

(intervista realizzata da Matteo Tacconi)