In Arabia Saudita l’aiuto al governo del Bahrein è stato decisivo per spegnere i focolai di protesta nati sull’onda delle piazze tunisine ed egiziane: nel marzo scorso, grazie al ruolo di primo piano occupato nel Consiglio di Cooperazione degli stati arabi del Golfo, i sauditi hanno potuto inviare a Manama un migliaio di soldati che a bordo di mezzi blindati hanno aiutato a disperdere i manifestanti. Il 28 agosto il re Hamad ha annunciato in un discorso alla nazione che il Consiglio Supremo di Giustizia valuterà eventuali risarcimenti per i feriti e le vittime degli scontri durante le manifestazioni.
Ma se nel Bahrein l’interesse dell’Arabia Saudita è quello di mantenere saldo il potere della dinastia sunnita degli Halifa, nello Yemen il governo Salih non rappresentava più una garanzia di stabilità quando si è deciso di offrire un accordo di transizione, sempre attraverso il Consiglio di cooperazione, per fare in modo che il presidente potesse abdicare in favore del suo vice Mansur Hadi. L’intesa non è stata trovata, ma Salih, al governo del paese dal 1978, è comunque finito in Arabia Saudita, per essere curato a seguito dell’esplosione della moschea all’interno della sua residenza. I Sa’ud intanto hanno aperto un dialogo con i diversi capi tribali yemeniti, per tenere sotto controllo una situazione potenzialmente esplosiva, in un paese dove il 55% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile.
In Siria, all’inizio delle manifestazioni, il ministro degli esteri del Bahrein si è recato a Damasco come emissario ufficioso di Ryiad, e ha assicurato la non intromissione diretta dell’Arabia Saudita nella gestione delle proteste da parte di Bashar Al Asad: l’eventuale caduta del governo siriano infatti potrebbe avere conseguenze imprevedibili sugli equilibri dell’intera regione, e permettere all’Iran di acquisire una maggiore influenza nell’area.
Nemmeno la risoluzione delle Nazioni Unite 1973 del 17 marzo per l’intervento in Libia sarebbe stata possibile senza il consenso di Ryiad e dei paesi del Golfo, che tra l’altro con Qatar ed Emirati Arabi partecipano alle operazioni militari a guida Nato. Una mossa per assicurare il benestare ad un’operazione portata avanti a livello internazionale contro un paese comunque membro della Lega Araba. Non è un caso che proprio l’Arabia Saudita abbia proposto di aprire il Consiglio di Cooperazione anche al Marocco e alla Giordania, monarchie geograficamente e politicamente strategiche, riuscite a non farsi travolgere dalla “rivoluzione dei gelsomini”.
Anche all’interno del paese il governo dei Sa’ud si è rivelato abile nel contenere le proteste, che pure ci sono state. Una, in particolare, è rimbalzata sui media internazionali come la sollevazione delle donne, che il 17 giugno scorso hanno organizzato una manifestazione per avere la possibilità di guidare l’auto.
Ma c’è un diritto, fondamentale, che alle saudite non è garantito, ancora prima di poter girare in macchina liberamente: il voto. Il prossimo 22 settembre ci saranno le elezioni municipali e 9 milioni di persone non potranno accedere alle urne. Dalle organizzazioni per i diritti umani arrivano numerosi appelli al boicottaggio di un appuntamento, il secondo in quarant’anni, che non garantisce la partecipazione, in un paese dove la donna non può nemmeno uscire di casa senza un tutore, uomo, che l’accompagni, né tantomeno essere responsabile del proprio documento di identità, che non è autorizzata a portare con sé personalmente.
Nel giugno scorso, dopo che diverse donne avevano tentato di registrarsi al voto, il Consiglio Consultivo nominato da re Abdullah ha approvato una risoluzione a favore del diritto universale alle urne, ma non per il prossimo appuntamento. Se ne dovrebbe parlare nel 2015, quando ci sarà la nuova tornata elettorale. Lo stesso annuncio era arrivato nel 2005, per le municipali del 2009, poi rinviate a quest’anno per “problemi tecnici”. Ma due anni di ritardo non hanno fatto la differenza.