L’ultima dittatura d’Europa, come la definiscono a Bruxelles, ha l’aspetto di giardini sempre in ordine e di strade su cui è difficile trovare anche una cicca di sigaretta; di ragazze alte, magre, ben curate che camminano su tacchi svettanti, mano nella mano con i fortunati fidanzati. Ha la faccia di bandiere verdi e rosse e di vessilli patriottici che invadono le principali vie del centro, a ricordare a tutti chi sono, e dei grandi magazzini Gum nella capitale, retaggio del passato sovietico, con commesse in divisa e prodotti a prezzi, però, non più così popolari.
La Bielorussia di Alexander Lukashenko sta vivendo infatti una profonda crisi economica che ha portato il presidente ad approvare una serie di misure restrittive e a chiedere un grosso prestito al Fondo Monetario Internazionale. È anche per questo che il Batka, cioè “padre”, come ama essere chiamato, ha perso un po’ del suo splendore. Da alcune settimane i giovani di Minsk lo stanno sfidando, un po’ come hanno già fatto i coetanei tunisini e egiziani o come hanno provato a fare altri in Medio Oriente, scegliendo il web e le strade come luogo d’incontro. Le nuove forme di protesta hanno qui l’aspetto di silenziosi flash mob: un appuntamento ‘cinguettato’ attraverso la rete che si trasforma letteralmente in un battere di mani. Ogni mercoledì, dalle sette alle otto di sera, nelle vie principali di Minsk. Ci si raduna e si comincia ad applaudire. Nulla più. È successo anche domenica 3 luglio in occasione della giornata dell’Indipendenza. E così mentre il presidente Lukashenko, in abito militare accompagnato dall’immancabile figlio piccolo Nikolai (anche lui in una divisa della sua misura), parlava alla nazione sottolineando come in Bielorussa non ci saranno le rivoluzioni colorate georgiane e ucraine, poco più in là, a piazza Oktyabr, tra il Palazzo della Repubblica e il Museo della Guerra, centinaia di persone sembravano fare le prove generali.
Prove generali di una rivoluzione che forse non avverrà, ma che comunque impensierisce l’establishment se la reazione di fronte a queste manifestazioni pacifiche sono stati i 300 arresti condannati anche da Amnesty International. Anche i siti dei social network pare siano stati bloccati.
“La Bielorussia continua a calpestare i diritti umani, ma questi ultimi arresti di massa e l’uso di gas lacrimogeni contro i manifestanti pacifici mostrano che gli attacchi alla libertà di espressione si stanno intensificando”, ha dichiarato John Dalhuisen, vice direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale.
Flash mob e uso della forza
Le manifestazione di domenica 3 luglio è stata solo l’ultima di una serie di proteste che negli ultimi tempi si stanno verificando periodicamente nella capitale. Sono ragazzi e ragazze, ma anche adulti che non disdegnano di unirsi ai manifestanti; e sono anche automobilisti che dinnanzi a questo anomalo assembramento rispondono a suon di clacson. Tutto molto composto e misurato, si intende, ma certamente inconsueto. Il copione è sempre lo stesso: i giovani tentano di radunarsi giungendo dalle vie laterali e cordoni di poliziotti si adoperano per disperderli. Anche gli agenti sono ragazzi, ma stanno dall’altra parte della barricata, alcuni in abiti civili, dotati di auricolare e videocamera, che filmano meticolosamente quello che avviene in piazza e chi la riempie. Non si nascondono, ma si mostrano, come un monito. Camionette militari intanto si posizionano sul ciglio delle strade. Poco dopo le vie sono di nuovo sgombere (e le camionette piene) e magicamente coppie di uomini in divisa camminano presidiando i giardini, come se nulla se fosse accaduto.
Comprendere quanto ci sia di coscienza politica e quanto di mera emulazione dei coetanei ‘rivoluzionari’ in altre parti del mondo non è facile. C’è chi spiega velocemente, mentre intanto cerca di mettersi al riparo dagli agenti, che “qui c’è un grave problema di democrazia” e c’è chi, molto più semplicemente, ti mostra soddisfatto e divertito i filmini di questi flash mob, come se fossero immagini di una serata fra amici.
Non è la prima volta che Amnesty International punta il dito contro il governo bielorusso. Nel rapporto 2010 sui diritti umani, l’organizzazione internazionale ha denunciato, infatti, violazioni della libertà di espressione, di associazione e di riunione, maltrattamenti, uso sproporzionato della forza e detenzioni arbitrarie, in particolare in relazione ai processi e alla mancanza di cure mediche ai detenuti in seguito alla manifestazione di protesta del 19 dicembre, per la quarta rielezione alla presidenza di Alexander Lukashenko.
Nei giorni scorsi, Igor Karpenko, capo della commissione Affari esteri e relazioni con gli Stati del Cis (Comunità degli Stati Indipendenti), in merito alla dura repressione seguita alle ultime presidenziali ha detto che : “queste manifestazioni vanno inquadrate da una prospettiva diversa. Cosa avreste fatto nei vostri Paesi se ci fosse stato un tentativo di destabilizzazione?”. “Hanno provato a entrare nel palazzo del governo e a impedire di votare a migliaia di persone – ha proseguito – Ecco perché siamo dovuti intervenire”. E per opporre le prove di ciò Karpenko ha anche fornito alla stampa estera un documentario prodotto dal governo che proverebbe come durante le elezioni ci sia stato il tentativo di sovvertire il potere in Bielorussia non solo attraverso le manifestazioni di piazza, ma attraverso l’ingresso di armi dai Paesi confinanti e un flusso di denaro che sarebbe arrivato agli oppositori da organizzazioni come il Ned, il National Endowment for Democracy. Il documentario, in lingua inglese e quindi fatto apposta per una platea estera, ha un titolo piuttosto evocativo: Ploscha. Beating glass with iron. L’acciaio, si sa, è molto più forte del vetro. Ma evidentemente non abbastanza da mettere a tacere completamente il dissenso, se gruppi di giovani scendono nelle strade. Anche se chi è molto vicino al presidente, come il capo dell’Amministrazione Vladimir Makey, sostiene che si tratta solo di un gruppo insignificante di giovani sbandati in cerca di soldi facili.
“Abbiamo fatto dei passi avanti in direzione di riforme democratiche e sappiamo che c’è ancora da fare. Stiamo cercando di avere buone relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Ma non deve venire Mr Barroso, o qualcun altro, a dirci cosa fare”, ha continuato, rispondendo così anche alle accuse provenienti da Bruxelles.
La crisi, l’inflazione e le privatizzazioni
Al di là delle operazioni di propaganda volte a gettare discredito sugli avversari politici, c’è un motivo incontrovertibile che sta rendendo inquieta la popolazione bielorussa e che funziona da volano per eventuali rivendicazioni e proteste. Nell’ultimo anno l’economia del paese è letteralmente crollata a picco e il costo della vita, sopratutto nella capitale, è aumentato in maniera esponenziale nel giro di pochi mesi. Colpa dell’inflazione e della svalutazione della moneta il cui potere d’acquisto è calato drasticamente del 36-38%.
Lukashenko si è impegnato, ora, a ricreare una condizione di stabilità nel giro di un mese, forte forse dei prestiti che sono arrivati, dopo aver chiesto tra i 3, 5 e gli 8 miliardi di dollari al Fondo Monetario internazionale. Minsk ha firmato infatti un accordo con la banca pubblica cinese Exim Bank, per un prestito complessivo di 1,058 miliardi di dollari, e un altro con la Comunità economica euro-asiatica (EurAsEC, che riunisce gli Stati dell’ex Unione Sovietica) che ha concesso un fondo di 3 miliardi di dollari. In entrambi i casi, la contropartita sarà mettere le mani sulle aziende bielorusse, che sono per circa il 52% pubbliche, attraverso un programma di privatizzazioni da avviare nei prossimi anni. In parlamento assicurano che tutto sarà fatto senza grossi scossoni, nel rispetto della costituzione del Paese di impronta socialista.
Mosca ha però tutto da guadagnarci considerando che la Bielorussa è una delle tappe obbligate per il passaggio di gas e petrolio russo e pare che Gazprom stia già puntando la Beltrangaz, l’azienda statale energetica bielorussa che controlla ancora il 50% del sistema di trasporto del Paese. Forse non è un caso, quindi, se sui canali televisivi russi si stia dando così tanto spazio alle manifestazioni antigovernative e alla massiccia repressione.
La posizione del Cremlino non è ancora chiara, anche se l’amministrazione di Lukashenko, attraverso Makey, ci tiene a ribadire che “siamo legati alla Russia da lunghe relazioni: la Russia è e sarà il nostro naturale alleato in futuro”. Le casse del Paese nel frattempo sono vuote, non si produce più valuta nazionale e, come ammette ancora Karpenko “tutta quella che entra nel Paese proviene dalle esportazioni”. Si fa fatica anche a trovare valuta straniera.
“Non c’è più nelle banche e esiste un mercato nero”. A parlare è una studentessa in Amministrazione Pubblica ed Economia. Si chiama Helena e non si può dire che sia un oppositore del presidente.
“È una persona che quando parla alla gente sa affascinare”, dice di lui. E pare sia anche un ottimo giocatore di hockey. Un appassionato. “Ha la sua squadra, il ‘team presidenziale, in cui giocano i suoi due figli. Sono andata a vederlo tre volte allo stadio”.
Helena sta bene a Minsk: “vedrete come è pulita e ordinata”, annuncia prima di arrivare. E in effetti ha ragione. “Qui si vive sicuri e sereni, pure se i salari sono bassi”. Uno stipendio medio di circa 500 dollari ora ne vale 350. E il costo di un appartamento di tre stanze nella capitale, in una zona non centrale, ne costa circa 300. Ma lei non ha la velleità di andare via come i suoi amici che “pagano anche 2mila dollari alle agenzie che si occupano di trovarti lavoro negli Stati Uniti, del visto e del biglietto aereo”.
Ma se le si chiede come definirebbe il governo del suo Paese, in bilico tra un regime soft e uno statalismo di impronta sovietica, lei nega che ci sia una dittatura, ma non riesce a trovare una formula che chiarisca cosa sia la Bielorussia oggi.
Anche per capire Andreij, una brillante guida turistica locale, del resto si fa un po’ di fatica. Si dice che non sia un sostenitore del ‘padre‘ di Minsk, eppure ci vuole un bel po’ a comprendere il suo sarcasmo ogni volta che nomina “our dear leader”, puntando gli occhi al cielo come se si rivolgesse a Dio. Forse perché il confine tra batka e godbatka, cioè tra padre e padrino, è ancora troppo sottile.