Erdogan, terza volta
Nicola Mirenzi 27 giugno 2011

Con la terza elezione consecutiva alla guida del governo, Recep Tayyip Erdogan è entrato definitivamente nella storia della Turchia, divenendo uno dei politici più significativi di sempre. Il quasi cinquanta per cento dei voti che gli elettori turchi hanno tributato al suo partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) alle elezioni del 12 giugno dimostrano una volta di più che l’islam democratico che Erdogan e i suoi uomini propongono a questo paese è connesso profondamente con i sentimenti e gli umori di una nazione che cresce economicamente al ritmo dell’otto per cento, che ha assunto un ruolo internazionale sempre più importante e prestigioso, e che è convinto che il suo futuro sarà migliore del suo passato.

Ma la stravittoria che Erdogan desiderava ottenere per cambiare da solo la costituzione e stagliarsi come un “sultano repubblicano” nella vita politica della Turchia non è arrivata. I seggi parlamentari che l’Akp ha conquistato sono 326. Troppo pochi sia per modificare la legge fondamentale e sottoporla a un referendum popolare (330) sia per cambiarla senza ricorrere al parere degli elettori (367). Il rischio che la forza elettorale di Erdogan strabordasse nell’annullamento del pluralismo è stato così scongiurato dalla prova di salute della democrazia turca, non dalla minaccia dell’uso delle armi – come è spesso accaduto nella storia della Turchia. Il maggior partito d’opposizione, quello repubblicano del popolo (Chp), è cresciuto di circa cinque punti percentuali, assestandosi poco sotto il ventisei per cento. Il partito nazionalista (Mhp), nonostante gli scandali a luci rosse che hanno coinvolto alcuni dei suoi dirigenti in campagna elettorale, è arrivato al tredici per cento dei consensi (in leggero calo rispetto al 2007). Ottima è stata invece la prova del partito filo curdo per la pace e la democrazia (Bdp), il quale ha candidato i suoi uomini nelle liste indipendenti (per aggirare l’altissima soglia di sbarramento del dieci per cento) ed è riuscito a conquistare quasi il sei per cento dei consensi.

Per modificare la legge fondamentale scritta dopo il colpo di stato del 1980, Erdogan è così costretto a cercare il dialogo con l’opposizione. Il tema della modifica costituzionale è oramai entrato nell’agenda della politica turca e anche il partito repubblicano e quello curdo hanno dei progetti di riforma. La conciliazione e il compromesso però non sono il punto di forza della personalità di Erdogan, molto più a suo agio nei panni del decisore carismatico e dell’uomo forte. Tuttavia, subito dopo l’elezione, il suo discorso sulla nuova carta è apparso aperto e disponibile: «Cercheremo il consenso del maggior partito d’opposizione e delle altre opposizioni – ha detto il primo ministro –, dei partiti rimasti fuori dal parlamento, dei media, delle Ong, degli accademici, e di tutti coloro che hanno qualcosa da dire».

Certo non è la prima volta che Erdogan dice di voler dialogare con le varie anime della Turchia. Semmai il fatto nuovo è che alla guida dell’opposizione repubblicana si sia installato Kemal Kilicdaroglu. Il Ghandi Turco – così lo chiamano i giornali, per il suo carattere pacioso – ha fatto cambiare decisamente rotta a un partito rigido e ideologico, schiacciato sulle posizione dell’establishment laicista e dell’esercito. Kilicdaroglu ha portato nel partito una ventata d’aria fresca, facendo delle proposte ragionevoli sulla questione curda, aprendo sulla possibilità di modifiche costituzionali, smettendo di diffondere l’insensato terrore che la Turchia – sotto la guida dell’Akp – diventerà prima o poi come l’Iran. Se la sua svolta riuscirà a prendere veramente piede (il vecchio leader Deniz Baykal sta già tentando di mettergli il bastone tra le ruote) si apre veramente la possibilità di un confronto serio con il partito islamico democratico al governo. A patto che Erdogan sia capace di far seguire alle parole i fatti.

Ma la nuova elezione di Erdogan sembra presagire anche l’assestamento di alcune posizioni di politica estera. Dopo un anno di forte tensione tra la Turchia e Israele – un tempo alleati di ferro nell’area mediorientale – i due paesi hanno avviato negoziati segreti per riportare la situazione alla normalità. E anche se dietro agli sforzi di dialogo c’è sicuramente la forte insistenza degli Stati Uniti d’America, è vero anche che la Turchia si trova in questo momento a fronteggiare una situazione difficile e imprevista ai confini con la Siria, dove migliaia di persone scappano dalla repressione del regime di Bashar Al-Assad. Inoltre la stabilizzazione del Medio oriente che solo un anno fa Ankara immaginava di poter ottenere con la visionaria politica degli «zero problemi con i vicini» sembra impossibile da raggiungere nell’immediato futuro. Così, la forte imprevedibilità creatasi nella regione dopo le rivolte arabe obbliga la Turchia a guardare nuovamente verso i rifugi storici della sua politica estera. Senza però trascurare i nuovi orizzonti apertisi nel frattempo.

Tra i vecchi sentieri da ripercorrere non è escluso che rientri l’obiettivo dell’ingresso nell’Unione Europea. Da sempre un cavallo di battaglia dell’Akp, e tuttavia molto trascurato nell’ultima legislatura. L’Erdogan terzo – oltre a lasciare un segno nella storia costituzionale della Turchia – potrebbe così riequilibrare il suo orientamento internazionale. Riportando al centro dell’attenzione i suoi rapporti con l’occidente e Israele. Ma senza rinunciare allo sbocco che ha saputo aprirsi in questi anni nella regione mediorientale.