Binario numero 15, Stazione Ostiense, Roma. Se vuoi trovarli devi andare lì. Sono circa un centinaio, hanno poco più di vent’anni e sono afghani. Parlano dari e pashto e quindi forse neppure capiscono gli annunci che fino a notte comunicano arrivi e partenze dei treni. O non ci fanno più caso. Come chi abita sotto la tangenziale. Loro, invece, da qualche mese vivono in uno spazio morto dove verranno fatti i lavori per l’alta velocità. Per il momento questa è la soluzione migliore che hanno trovato i volontari dei Medu, i Medici per i Diritti umani, in accordo con le Ferrovie dello Stato, allestendo una mini tendopoli e recitando l’area. Tende blu, una fontanella e bagni chimici.
«Prima dormivano lungo il binario e attraversavano le rotaie per andare a usare l’acqua che scorre lungo le canaline», dice Maria Cristina, volontaria dell’associazione. Dal lunedì al venerdì i Medu sono qui con un camper che tre volte a settimana si trasforma in un piccolo ambulatorio medico e altre due in un ufficio mobile di consulenza. Alcuni di loro, infatti, faranno domanda di asilo in Italia, altri invece sono “in transito” perché già sanno che qui avranno poche possibilità di lavoro e accoglienza. Solo che quasi sempre, assicurano, vengono rimandati indietro là dove è stata fatta la loro identificazione con le impronte digitali, cioè in Italia.
«Ormai lo sanno, ma ci provano lo stesso ad andare via», sottolinea Maria Cristina. Bari, Ancona, Venezia sono i primi approdi all’Eldorado, dopo il classico viaggio della speranza che parte dall’Afghanistan, la cui democrazia si mantiene solo grazie a 134 mila soldati della Nato, e passa per l’Iran, la Turchia e la Grecia. Quasi quattro mesi per raggiungere l’Europa.
Questo il tempo che ci ha messo Abdel per arrivare a Milano, la prima volta, due anni fa. «Vengo da Jalalabad. Mio padre è stato ucciso perché era un mujahedin». Ventuno anni e un buon italiano. «Vado a scuola», dice. Ha il permesso di soggiorno, ma non un lavoro. «Ho cercato, ma non c’è». In Afghanistan ha tre fratelli, una sorella e una madre. «Li vorrei qui, ma non posso farli venire perché non ho un posto dove vivere. Sono stato tre settimane al binario».
Del problema della mancanza di lavoro per chi è in regola parla anche Chaman. Lui di anni ne ha quasi trenta e da cinque è scappato via da Herat, ma è originario del sud, della zona di Helmand, una delle più tristemente note per le sacche talebane e per i bombardamenti Isaf. Chaman si arrangia come può, ma trova solo occupazioni in nero. Studia italiano e vorrebbe prendere la patente. Si lamenta però che dal 2008 a oggi le cose in Italia sono peggiorate e che a Roma ci sono meno possibilità che in comuni più piccoli del nord. È appena arrivato da Como con una piccola borsa, il libro di italiano per stranieri e un pacco di curriculum vitae. È carrozziere. «Domani ho un colloquio a Viterbo. Ho trovato un annuncio su Porta Portese».
Tra gli inquilini del binario 15 negli ultimi tempi è stata notata una flessione verso il basso per quel che riguarda l’età media. E allora è possibile incontrare anche Rahmatullah o Ahmad, neanche maggiorenni. A vederli, con i capelli tenuti all’insù dal gel e con le loro t-shirt colorate sembrano due adolescenti qualunque che emulano i Tokio Hotel. Invece, le loro storie sono ben più pesanti. Rahmatullah, sedici anni, ha pagato circa 3000 dollari per il viaggio fino alle coste del Mediterraneo. Ma non sa neanche leggere e senza i documenti e il permesso di soggiorno non potrà neppure frequentare le scuole per gli stranieri. A fargli da interprete ci sono, ora, i suoi coetanei. C’è Ahmad; lui parla un po’ di inglese. Con quell’aria un furba dei suoi diciassette anni sembra sicuro di sé e risponde svogliato alle domande di rito: What’s your name? How old are you? When did you arrive in Italy? Do you want stay here? Ha deciso che la sua nuova casa sarà Roma. «Mi piace», spiega, ma non sa ancora come è difficile trovare lavoro e strutture adeguate in una città così grande.
I rifugiati o richiedenti asilo vivono nel quartiere Ostiense dal 2006. «Prima erano nella buca, le fondamenta di un palazzo in costruzione. Poi sono stati sgomberati», raccontano gli operatori Medu. Ma il binario 15 non è una soluzione a lungo termine; né per gli afghani, né per gli abitanti della zona.
«La mia casa si è deprezzata di trentamila euro, da quando ci sono queste persone. D’estate con i bagni chimici qui non si può stare», interviene una signora con il cagnolino che, arrabbiata, è arrivata a lamentarsi con i volontari. I referenti, però, non sono loro, ma le istituzioni. Ne parlerà con il comitato di quartiere, conclude. Tutto riprende con la solita routine. Censimento, fila per il medico e qualcuno che è venuto qui solo per due chiacchiere o farsi fotografare. Ghazni si mette in posa, sorridente accanto a un cespuglio in fiore. Vuole mandare la foto a casa e far vedere che sta bene.