«Sono un crocevia, mi sa. Un ponte, un’equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla fine sono solo la mia storia. Sono io e i miei piedi». Igiaba Scego è italiana e somala, è Roma e Mogadiscio messe insieme, unite in una personale mappa rappresentata da un disegno di Mogadiscio (frutto di un pomeriggio di ricordi in una famiglia dove ognuno ha un passaporto diverso), e circondata da post-it che hanno i nomi dei luoghi di Roma dove Igiaba è cresciuta. Igiaba Scego è una scrittrice e giornalista, nata a Roma da genitori somali fuggiti dalla dittatura di Siad Barre, un padre che è stato ministro degli Esteri e si è rifugiato a Roma – convinto che fosse una città magica perché spinto dal ricordo di un concerto di Nat King Cole ascoltato al Teatro Sistina – e di una mamma che ha cresciuto la figlia raccontandole le favole e le storie e i racconti della Somalia, liberandola in questo modo «dalla paura che avevo di essere la caricatura vivente nella testa di qualcuno. Con i suoi racconti mi ha reso persona. In un certo senso mi ha partorito di nuovo».
Igiaba Scego ha scritto La mia casa è dove sono (Rizzoli 2010): è la sua storia di ragazza che diventa donna e che da bambina ha conosciuto gli insulti per il suo essere nera, il disagio di andare a cercare aiuto per mangiare e vestirsi in una Trastevere di persone che si aiutavano e non di lussi e serate glamour, la sofferenza di un’adolescente che, mentre in Somalia scoppia la guerra, va a una festa e non riesce a perdonarsi per molto tempo, perché da quel giorno e per due anni la sua famiglia perde le tracce della madre – che si trova proprio a Mogadiscio, riesce a fare una telefonata solo dopo mesi a rischio della propria vita, e può tornare in Italia sana e salva soltanto due anni dopo. Scrive Scego: «Roma e Mogadiscio, le mie due città, sono come gemelle siamesi separate alla nascita. L’una include l’altra e viceversa. Almeno così è nel mio universo di senso». La scrittrice attraversa Roma – il Teatro Sistina, lo stadio Olimpico, piazza Santa Maria sopra Minerva, Trastevere – e da qui parte per raccontare la sua storia e quella della sua famiglia, quella di Mogadiscio e quella della Somalia e dunque la storia dell’Italia. Tifa Roma. Ed è una ragazzina innamorata quando scoppia la guerra civile che per due anni risucchia la madre: sono dolenti e commoventi le parole con le quali la scrittrice racconta del periodo in cui la madre era persa in Somalia, come toccante è il momento in cui ricorda il ritorno a casa, l’incontro all’aeroporto, la sensazione di non volerla contaminare con i segni della sofferenza che portava nel corpo e nell’anima di adolescente.
Dal racconto della storia della sua famiglia – una sorta di epopea familiare drammatica ma narrata con leggerezza e ironia – emerge come Igiaba sia profondamente figlia della storia italiana, come della storia somala. Le ferite del vuoto che Igiaba si porta dentro sono rappresentate da due fotografie importanti, quella del nonno e dello zio, che lei non ha mai conosciuto di persona: il nonno durante il fascismo in Somalia visse come interprete e fu in seguito primo ministro del primo governo somalo; lo zio venne accoltellato a morte per la sua attività politica. La storia della famiglia di Igiaba si intreccia con la storia del colonialismo italiano, con il quale l’Italia fatica ancora oggi a fare i conti, e con la storia di una Somalia distrutta dalla guerra civile, che costringe i suoi figli a una diaspora che, a Roma, ricrea Mogadiscio alla Stazione Termini, dove si ritrovano lingue, «chiacchiere» e una «essenza di casa» che diventa punto di riferimento per molti, chi più chi meno disperato. Scrive Igiaba quando chiude il suo racconto: «Mi sono concentrata sui primi venti anni della mia vita perché sono stati i venti anni che hanno preparato il caos somalo, un caos che mi ha travolto fin da bambina e che ancora oggi continua a travolgermi. Ma sono stati anche i venti anni in cui l’Italia è cambiata come non mai. Da paese di emigranti a paese meta di immigrati, dalla tv chioccia alla tv commerciale, dalla politica all’antipolitica, dal posto fisso al precariato. Io sono il frutto di questi caos intrecciati. E la mia mappa è lo specchio di questi anni di cambiamenti. Non è una mappa coerente. È centro, ma anche periferia. È Roma, ma anche Mogadiscio. È Igiaba, ma siete anche voi».
È vero: la storia della scrittrice è la storia del passato italiano e del suo presente, è la storia della Somalia passata e di quella presente, è un racconto possente scritto con tratto leggero che attraversa gli anni e gli stati d’animo e ci riconsegna indietro il tema senza tempo dell’identità che non è unica, non è univoca, non è monolitica. La scrittrice trova la sua identità, che è fatta di crocevia e punti di equilibrio fra mondi molto più vicini e intrecciati di quanto possa sembrare a un occhio inesperto, nella sua personale storia, nelle sue scarpe, nel suo essere tutto – Roma e Mogadiscio insieme. Spesso, nel discorso pubblico, quando si parla di migranti si finisce per elencare una serie di numeri: quanti sono, da dove vengono, quanti e quanto lavorano, quante tasse pagano, quanti bimbi corrono nelle aule scolastiche. Quasi mai si racconta una singola storia per rendere evidente la complessità, la forza drammatica, l’intreccio di eventi che portano una persona fino in Italia e la rendono profondamente parte delle vita italiana – non solo per nascita, non per discendenza, ma semplicemente perché la Storia e le storie si intrecciano in modi imprevedibili. Intrecciando con loro persone, popoli, Paesi. Igiaba Scego ci fa sorridere, ci fa riflettere, ci fa commuovere. E ci fa sentire profondamente grati perché lei ha raccontato questa storia.