Se la morte di Bin Laden rappresenta per gli Stati Uniti d’America la “chiusura di un cerchio” apertosi dolorosamente con l’attentato del 9/11, il “Big Bang” del qaedismo, d’altra parte, non ci restituisce un mondo più sicuro, ma può costituire purtroppo la nascita di una nuova e più temibile Al Qaeda.
Bin Laden, co-fondatore di questa struttura criminale unitamente all’egiziano al-Zawahiri, non può essere definito un Commander in Chief, un capo militare di un’entità omogenea e ben circoscritta, ma un capo ideologico la cui figura, a partire dall’attentato delle Twin Towers si è progressivamente mediatizzata e virtualizzata, fino a coincidere in modo identitario con l’ideologia qaedista stessa; da qui si può comprendere come risulti piuttosto semplice la costruzione retorica del mito nell’immaginario fondamentalista violento.
Nel 1988, Bin Laden l’egiziano al-Zawahiri fonda Al Qaeda, originariamente contraddistinta da una struttura compatta e fortemente verticistica che, da subito, si distingue per la sua dimensione internazionale nonché per una strategia criminale “a doppio binario”: da un lato focalizza i propri interessi sui territori afghani da difendere attraverso il ricorso alle azioni asimmetriche di guerriglia condotte dai Mujaheddin; dall’altro, propaga il terrore nel mondo arabo attraverso il compimento di significative e sanguinose azioni terroristiche, con l’obiettivo di raccogliere consenso attorno al progetto dell’Umma transnazionale e la costituzione di un nuovo califfato.
Oggi, Al Qaeda appare come una rete somigliante sempre più ad un universo magmatico e multiforme costituito da ceceni, arabi, pachistani, uzbechi, pashtun, che riduzionisticamente e semplicisticamente viene rappresentato come “monolite” jihadista, ma che in realtà è costituito da entità criminali tra loro differenziate sia per il profilo costitutivo, nonché sul piano tattico ed operativo. Si è passati, pertanto, da progetto a gruppo, quindi struttura reticolare, ideologia mediatizzata, visione manichea del mondo contemporaneo globalizzato ed infine nebulosa multiforme del terrore.
Il comunicato con cui Al Qaeda conferma la morte del suo leader carismatico, testimonia la volontà implicita di tenere viva la connessione con il nucleo storico del network, attraverso la rievocazione immaginifica del vincolo inscindibile tra Bin Laden ed Al Qaeda rafforzatosi nel corso degli anni.
È proprio in tale contesto che nell’immediato futuro si potrà assistere ad una fase schizofrenica di quello che potremmo definire “spontaneismo violento”, disorganizzato e destrutturato in cui singoli giovani individui e piccoli aggregati integrati nel tessuto sociale, soprattutto europeo e/o americano, decidano autonomamente di attivarsi per colpire, con mezzi rudimentali, improvvisati ed artigianali, obiettivi riconducibili agli interessi e alle alleanze statunitensi.
Successivamente, in attesa di conoscere, verosimilmente attraverso un video comunicato, il riassetto organizzativo del vertice strategico qaedista, si potrà avere una fase di “spontaneismo terroristico”, in cui cellule e gruppi localmente organizzati del terrorismo internazionale di matrice islamista cercheranno di compiere un “salto di qualità”, un avanzamento di posizione nel rating del terrore globale, ponendo in essere spettacolari attentati terroristici a livello locale, condotti a danno anche di obiettivi e popolazioni civili, al fine di garantirsi, grazie all’attenzione dei media, un accreditamento funzionale al processo di affiliazione al brand terroristico “Al Qaeda”.
Secondo la sconcertante rivelazione di Wikileaks, Al Qaeda sarebbe in possesso di materiale fissile e di un congegno in grado di far esplodere una “bomba sporca” su territorio europeo o in una grande città statunitense, come risposta immediata, compatta e centralizzata all’uccisione di Osama Bin Laden. Tuttavia, oltre a rappresentare un punto di non ritorno per il progetto qaedista, di fatto ciò costituirebbe un significativo mutamento della strategia e tattica del network del terrore – caratterizzate in passato nel modus operandi da più azioni coordinate di suicide-bombing – nonché il decisivo abbandono alla deriva nichilista. Questo depriverebbe il network stesso del proprio progetto politico-religioso transnazionale, indebolendone la centralità strategica e favorendo l’atomizzazione dello spontaneismo meno organizzato. In tal senso, il vertice potrebbe quindi voler porre in essere un evento così eclatante da esercitare una forza centrifuga a livello globale in grado di ricondurre sotto il proprio diretto controllo e dipendenza funzionale le entità terroristiche islamiste e pseudo-qaediste oggi operanti.
Sul piano geopolitico-criminale, vi è da considerare che, al momento, per i terroristi il problema non risulta essere quello di cavalcare l’onda emotiva dell’uccisione del proprio leader carismatico, ma nella fase successiva di porsi come concreta alternativa alle forme di governo, in un contesto come quello odierno caratterizzato dalla cosiddetta “primavera araba”, ove le genti in particolare di Egitto, Tunisia, Libia e Siria, chiedono diritti e vogliono una società estremamente distante da quella dei modelli wahabita e salafita.
L’autoritarismo e la centralizzazione dei poteri in un unico soggetto sono due fattori politici contro i quali combattono i giovani che hanno mosso e muovono le rivolte arabe degli ultimi mesi. Questi vogliono il cambiamento ed il fondamentalismo non lo rappresenta. Al Qaeda vuole fermare l’emorragia democratica che sta dissanguando i regimi autoritari del mondo arabo; in tal senso, il recente attentato condotto da “Al Qaeda nel Maghreb Islamico” (AQMI), oggi uno dei gruppi più ramificati nel Mediterraneo nonché l’entità operativamente più importante nella galassia qaedista, evidenzia l’incapacità della stessa di deviare con la violenza il percorso di democratizzazione e liberazione dei popoli arabi dai propri tiranni, non avendo di fatto la capacità politico-religiosa di cavalcare l’onda del dissenso ed attestarsi su di una posizione di leadership nella regione del Maghreb.
Qualora la distanza tra le due forze che attraversano oggi la spina dorsale del mondo arabo – da un lato quella democratica e “risorgimentale”, e dall’altro quella minoritaria del fondamentalismo violento –, dovesse ridursi, il terrorismo qaedista potrebbe fungere da ossigeno per alimentare il fuoco della destabilizzazione e per dar vita a zone di vuoto in cui insediarsi e governare i propri interessi di reclutamento, approvvigionamento e sostentamento economico, anche attraverso traffici illegali.
Già a partire dagli attentati di Londra del 2005, l’idea di Al Qaeda come una organizzazione terroristica di tipo verticistico-tentacolare fortemente strutturata ed in grado di operare in modo capillare in ogni angolo del globo, sembra non trovare un riscontro effettivo nella realtà. Ciò risulterebbe confermato anche dalla discontinuità strategica e dalle modalità operative con cui sono state successivamente condotte le singole operazioni terroristiche prima a Madrid, quindi a Sharm el-Sheik, Bali, Casablanca, Bombay e in ultimo a Marrakech.
Per quanto concerne la successione di Bin Laden alla leadership di Al Qaeda, vi è da precisare che già da tempo si è determinata una frizione tra i sostenitori di Bin Laden ed il gruppo di al-Zawahiri, rafforzata dal dissenso maturato attorno al crescente bagno di sangue islamico determinato dalla strategia criminale dettata dallo “sceicco del terrore”. In tal senso, lo spostamento del fronte aggressivo, degli obiettivi qaedisti, sul territorio europeo con gli attentati di Londra e Madrid, avrebbero posto in evidenza una flessione di incisività della leadership e quindi la necessità di un rafforzamento dell’immagine di “autorevolezza” della stessa al proprio interno. Inoltre, l’assenza di un ricambio generazionale del vertice strategico potrebbe determinare, in un contesto di vulnerabilità percepita, una stagnazione della struttura reticolare qaedista, rafforzata dall’avanzare sulla scena internazionale delle nuove entità salafite caratterizzate da una significativa capacità aggressiva, ma soprattutto dotate di una notevole, se non assoluta, autonomia organizzativa.
Presumibilmente, sul medio termine, Al Qaeda tenterà di portare a compimento il processo di silente “colonizzazione africana”, specialmente attraverso la gestione di alcuni labili confini dell’area sub-sahariana. Tale processo sarebbe teso ad instaurare significative alleanze con soggetti, gruppi e/o élite criminali locali, quali ad esempio i Muhajirun, talebani nigeriani, con l’obiettivo di creare delle lunghe dorsali di tensione transnazionali pronte a far deflagrare sistemi socio-demografici già compromessi quale quello nigeriano, somalo o sudanese. In questo caso, si potrà notare l’impronta del comando qaedista, secondo due principali figure: l’egiziano al-Zawahiri o, al contrario, lo yemenita al-Awlaki.
Sul piano della comunicazione ed organizzazione, Al Qaeda non ha mai scelto la forma di movimento politico massimalista e rivoluzionario, ma ha cercato via via di espandere e rafforzare il proprio consenso attraverso la rappresentazione del terrore intesa come costruzione mediatica dell’evento terroristico, quindi grazie alla connessione emotivamente efficace individuabile nella triangolazione immagine, evento, retorica. A questo punto, il network si trova a dover scegliere se mantenere il duplice livello di scontro in ambito reale e virtuale, o se privilegiare l’uno rispetto all’altro.
Pertanto, si potrà assistere, secondo una strategia di lungo termine, da un lato, ad una progressiva deterritorializzazione, individualizzazione, se non addirittura “privatizzazione intimistica” del qaedismo in una nuova e più efficace pseudo-dottrina globalizzante su base antagonista e para-violenta, in grado di aumentare il numero degli affiliati a livello globale, magari proprio attorno alla figura del “martire” Bin Laden. Al contrario, si potrebbe però determinare anche la costituzione, probabilmente a seguito di dinamiche conflittuali endogene e/o faide che vedranno protagonista il gruppo egiziano guidato da al-Zawahiri, di una “vera Al Qaeda” autoproclamantesi unica depositaria del mito originario, numericamente ridotta, caratterizzata da una dinamica top-down fortemente compartimentata, flessibilmente e selettivamente operante.
In questo ultimo scenario acquisirebbe una notevole importanza il “gioco delle alleanze”, soprattutto in aree di crisi e destabilizzazione, con altre entità terroristiche, prima fra tutte i Taliban in Afghanistan e Pakistan.
Infine, non vi è da sottovalutare l’eventualità di interconnessioni funzionale per la condivisione di specifici interessi criminali che potrebbe dar vita a formazioni ibride di notevole pericolosità ed imprevedibilità operativa.
Arije Antinori, ricercatore in sociologia e criminologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”, è esperto di terrorismo e di criminalità organizzata.