L’ex primo ministro italiano Giuliano Amato è membro del Board of Governors di Reset-Dialogues on Civilizations
Dopo il referendum svizzero sui minareti, qualcuno ha scritto che “si può anche uccidere una democrazia con metodi democratici”. L’espressione è molto forte e personalmente penso che la democrazia svizzera sia stata ferita da quel referendum, ma è troppo forte per uscirne uccisa. Mi chiedo piuttosto un’altra cosa e cioè quanto sia democratico decidere su diritti di minoranza con uno strumento così schiettamente maggioritario come il referendum. E me lo chiedo in particolare oggi, in una fase storica nella quale fra politica e opinione pubblica è così carente quella che in inglese si chiama “deliberative democracy” e la discussione razionale è sostituita dallo scambio di messaggi emotivi.
Di sicuro è contrario ai principi democratici un argomento che viene di frequente usato nel merito della questione decisa dal referendum: i diritti religiosi dei musulmani potranno essere pienamente riconosciuti nei nostri paesi, quando i diritti religiosi dei cristiani lo saranno nei paesi a maggioranza musulmana. A parte il fatto che in taluni di essi questo riconoscimento c’è, mentre non c’è nei paesi più schiettamente autoritari, se le democrazie fanno dipendere il rispetto dei loro stessi principi da una effettiva reciprocità con qualsivoglia regime del pianeta, allora negano platealmente se stesse.
Le democrazie hanno un compito, davanti a sé e davanti al mondo: costruire società fondate sul riconoscimento reciproco delle componenti etniche e religiose che ne fanno parte, perché così è scritto nelle loro Costituzioni e nelle convenzioni internazionali che solennemente le legano. In tali convenzioni i diritti fondamentali sono attribuiti non ai cittadini e tanto meno ai cittadini professanti l’una o l’altra religione, ma alla “persona”. Così è non solo nell’Unione Europea, ma anche secondo quella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, alla quale hanno aderito tutti i nostri paesi.
Costruire società aperte non è semplice e di sicuro non è solo una questione giuridica. È una questione di cultura e di accettazione di responsabilità non solo da parte delle maggioranze, anche delle minoranze e di coloro che arrivano per ultimi; è un two ways process, com’è scritto in tanti documenti europei. Proprio perché è così, però, rifiutare alla minoranza islamica di concorrere con i suoi templi alla vita e alla stessa fisionomia urbana delle nostre città, significa respingerla, dichiararla estranea e quindi eccitare sentimenti che vanno in direzione opposta alla accettazione reciproca, che è propria di una società aperta.
Se poi qualcuno mi dice che i minareti non hanno soltanto un profilo, ma che sono anche i luoghi ai quali, nelle ore che noi assegniamo al riposo, la voce amplificata del muezzin chiama alla preghiera, allora rispondo che questo è un tema su cui è giusto che la maggioranza non musulmana faccia valere le sue ragioni e imponga un ragionevole accordo. Così hanno fatto alcuni Leader tedeschi ed hanno contribuito alla auspicabile convivenza pacifica.
Per i non credenti la fede religiosa non dovrebbe mai essere una ragione di discriminazione. Mentre per i credenti che vedono in Dio la fonte suprema della volontà di pace e attribuiscono a lui la scelta di averci fatto diversi, sarebbe una contraddizione ben grave che la diversità fosse ragione di esclusione. Cadere in tale contraddizione è anzi un modo fra i più gravi di negare Dio. È una giustificazione sostenere che l’Islam è una religione aggressiva, che insegna l’aggressione, con la conseguenza che limitarne l’espansione è una forma di difesa legittima? No, non è una giustificazione, perché si fonda su una grave mistificazione dei caratteri dell’Islam, che è arbitrario identificare con le sue ali fanatiche e integraliste.
Questo è il testo letto dall’autore alla conferenza “After the Ban on Minarets: The Open Society and Islam”, organizzata da ResetDoc e UFSP Asia and Europe e tenutasi alla Università di Zurigo il 17 novembre 2010.