La cristianità di fronte alla stranierità
Enzo Bianchi intervistato da Sara Hejazi 17 giugno 2010

Padre Bianchi, lei parla di una stranierità che si declina in modi molto diversi. In che senso?

Questa idea nel libro parte dalla riflessione del filosofo e poeta francese Edmond Jabès che dice: “Quando io incontro lo straniero, mi scopro straniero”. Questo è un concetto che dovrebbe essere facilmente comprensibile a tutti, mentre generalmente ci limitiamo a intendere lo straniero come l’altro, senza interrogarci sul nostro essere straniero rispetto a lui. Quando due si incontrano, non c’è solo uno straniero, ma due. Partendo da questa riflessione andiamo oltre, riflettendo sulla stranierità che ci abita. Chi ha una certa vita interiore, ad un tratto scopre di essere straniero a se stesso. C’è una parte di noi che non ci è estranea, ma è straniera: ci sorprende, ci spaventa anche. La categoria di stranierità non può essere coniugata dunque solo al livello di “io e gli altri”, ma va coniugata anche all’interno del proprio io, della propria esistenza. E il rischio con questa stranierità che ci abita, se mal gestita, è quello di una divisione interiore, fino a forme di schizofrenia esistenziale e psichica. Ecco: è la stessa cosa che accade con la stranierità dell’altro, che, se mal gestita, ci porta a forme prima difensive, poi autarchiche e financo all’autismo culturale.

È cambiato il rapporto con la stranierità nel corso del tempo, secondo la sua esperienza?

Partiamo dalla lettura della Bibbia, che per me che sono cristiano è parte del mio quotidiano. La Bibbia ripete, per ben 48 volte, in vari punti: ”Tu amerai lo straniero”. Ma una sola volta dice: “Tu amerai il prossimo tuo”. Se ci si pensa, questo è un fatto indicativo. Fin dalle origini, per noi è più facile amare il prossimo: i vicini, i familiari, coloro che portano il segno del nostro sangue, mentre è più difficile amare lo straniero, diverso e sconosciuto. Oggi però viviamo una situazione straordinaria in termini di rapporti con l’altro: i flussi migratori hanno importato una presenza massiccia di stranieri. Questa presenza desta interrogativi seri: che ne sarà della nostra cultura? Che ne sarà della nostra identità? Cinquant’anni fa, quando crescevo al paese, c’era paura dello straniero, che però era uno solo: lo zingaro, l’unico altro delle nostre campagne. E poi c’era la “lingera”: il vagabondo, l’ubriaco, il mendicante. Si trattava però, a quel tempo, di un’alterità ben contenuta: alla fin fine la lingua dava la possibilità di intenderci anche con la lingera. Oggi invece gli stranieri sono diversi per lingua, colore della pelle, morale e religione. Eppure le vecchie frasi stereotipate di un tempo risuonano anche adesso; allora si diceva: “Si sa, gli zingari rubano”. Adesso lo si sente dire anche da persone con incarichi di governo, come in questi giorni: “Si sa, gli stranieri delinquono”. L’idea astratta di povero, straniero, è in realtà oggi più che mai carica di romanticismo. Ma averci realmente a che fare, non è la stessa cosa: il povero puzza, è sporco, imprevedibile. I poveri non sono belli, così come non lo sono gli stranieri. Il vizio tipico dei cristiani di oggi è la carità distante che io chiamo “carità presbite”: amare chi sta lontano, donare un euro con l’sms al bambino africano, così ci si mette a posto la coscienza senza essere direttamente coinvolti. Da bambino invece era consuetudine trovare la lingera seduto a tavola con noi.

Quali responsabilità concrete spettano alla cristianità nei confronti dell’altro contemporaneo?

Anche se non è facile, bisogna smettere di tenere presente la categoria della reciprocità. Non è sulla reciprocità che si fanno i primi passi di umanizzazione. Nel cristianesimo le parole di Gesù ribadiscono questo: “A chi ti chiede di fare con Lui un chilometro, fanne dieci”. Ebbene, bisogna prendersi la responsabilità dell’altro senza aspettarsi che lui ringrazi, o ricambi. La vera sfida cristiana è quella della non reciprocità. Noi invece chiediamo la reciprocità soprattutto con gli stranieri. Quante volte ho sentito: “Ma loro ci fanno fare la chiesa nei loro paesi? Perché noi dobbiamo lasciargli costruire le moschee?”. Se con l’Islam mostrassimo accoglienza, e non pretesa di reciprocità, apriremmo nuove vie, solo così andremmo incontro ad una vera umanizzazione, quella che generalmente chiamano “integrazione” degli stranieri.