Nell’Ottocento l’impero britannico e la Russia zarista si contendevano l’egemonia nell’Asia centrale. Londra puntava a frenare l’espansionismo di Mosca, timorosa che, tassello dopo tassello, quest’ultima avrebbe presto lambito i confini dell’India, il possedimento più prezioso della corona. La Russia, dal canto suo, mirava a limitare l’influenza britannica, in una regione percepita insieme come cortile di casa e cuscinetto di sicurezza. Il viavai di spie e faccendieri, spregiudicati commercianti e ufficiali, l’altalena di trame e intrighi, doppi giochi e scortesie diplomatiche che si registrarono tra il Caspio e Kabul nel secolo XIX vennero ricondotti sotto un’unica voce: Great Game, il grande gioco. Il copyright – così si narra – fu di Arthur Conolly, agente segreto inglese in servizio presso la Compagnia delle Indie Orientali. Il romanziere Rudyard Kipling se ne appropriò, portandolo all’attenzione del grande pubblico.
Cambiano i tempi e le situazioni, muoiono gli imperi e nascono democrazie imperiali, ma l’Asia Centrale, questa vasta porzione di mondo delimitata a ovest dal Caspio, a est dalla Cina, a nord dalla Russia e a sud da Pakistan, Afghanistan e Iran, continua a essere teatro di significative manovre. Un grande gioco versione 2.0. New Great Game, lo chiamano non a caso gli esperti di geopolitica. Cina, Russia e Stati Uniti sono i protagonisti della contesa. Il terzetto di potenze che si muove, in competizione, in una regione cruciale per gli equilibri mondiali. La partita è particolarmente accesa a Kabul, Islamabad e Teheran. D’altronde sono le cronache a confermarcelo. Ma il grande gioco si sviluppa anche nei nei cinque “stan” – Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan – nati dalla corrosione dell’Unione sovietica, che costituiscono, insieme all’Azerbaigian, anch’esso ex repubblica dell’Urss, il cuore della regione centro-asiatica. Qui la disputa, anche se meno visibile nei titoli della grande stampa, è altrettanto accesa, sicuramente più fluida e quindi, più incerta.
Le potenze corteggiano questi stati, cercano di trascinarli dalla loro parte. Insistentemente. Perché queste terre sono il centro di gravità, lo snodo principale, il baricentro dei giganteschi interessi in ballo in Asia centrale. Il controllo delle risorse energetiche è quello che balza più agli occhi. Il sottosuolo centro-asiatico è ricco, ricchissimo di petrolio e di gas. Giacimenti che sfornano migliaia di barili di greggio al giorno – tra l’altro di ottima qualità, a sentire gli esperti – e da cui si estraggono miliardi di metri cubi di “oro blu” l’anno. Non solo. Questo quadrante è attraversato da chilometri e chilometri di pipeline. Mettere le mani sui bacini petroliferi e gassosi, nonché sull’ampia rete di “tubi”, definendo intese e firmando contratti commerciali con i governi locali, è una priorità. Ma non tutto ruota intorno all’energia. La porzione post-sovietica dell’Asia centrale ha pure una rilevanza politica di prim’ordine. Affacciandosi sulla Cina può servire, tanto nell’ottica americana quanto in quella russa, a contenere Pechino, che dal canto suo intende “colonizzare” questo spazio allo scopo mettere un piede nel cortile di casa russo e guastare i piani degli americani.
L’Asia centrale, poi, rappresenta un frangiflutti nei confronti delle attività terroristiche lungo la dorsale afghano-pachistana e delle intemperanze degli ayatollah iraniani. Controllarla può significare “recintare” la galassia qaedista, monitorare le sue attività, studiare le contromisure. È questo il motivo per cui dopo l’attentato alle Twin Towers l’attenzione americana verso i cinque stan centro-asiatici, considerati abbastanza marginali nel corso degli anni ’90, s’è fatta così insistente. La penetrazione americana, in origine, ha avuto successo. L’ex presidente George W. Bush, forte dell’ondata di solidarietà internazionale seguita all’11 settembre e dell’abilità con cui la diplomazia statunitense riuscì a tessere alleanze in nome della global war on terror, ottenne dai paesi dell’area il diritto a usare alcune strutture militari, in cambio comunque di massicci finanziamenti. Poi il quadro ha preso a cambiare. La chiave di volta sono stati i disordini di Andijan, località uzbeka dove il governo, nel 2005, ha represso sanguinosamente – circa 200 le vittime – una manifestazione di protesta facendola passare per rivolta islamica. L’amministrazione Bush ha biasimato severamente l’esecutivo di Tashkent. Che, indispettito, ha ordinato agli americani di lasciare la base aerea di Karshi-Khanabad, affittata a partire dal 2001.
L’episodio ha poi avuto ricadute anche altrove. Nel Kirghizistan dilaniato dalle lotte intestine, la concessione dell’aeroporto di Manas, alle porte della capitale Bishkek, è a rischio da tempo e dopo il recente golpe, che ha spodestato il presidente Kurmanbek Bakyiev, il nuovo esecutivo ha alzato il prezzo, economico e politico, dell’affitto della base. Washington, dal momento che la struttura è essenziale nell’ottica della guerra in Afghanistan, pare sia rassegnata a sottostare alle richieste di Bishkek. Tollerando tra l’altro il deficit democratico e la corruzione mostruosa che s’annida nei gangli vitali dello stato. A dettare la battuta d’arresto americana ha contribuito anche la credibilità persa da Washington negli ultimi anni. Il fatto che la guerra in Afghanistan tutto è stata tranne che una blitz-krieg. Il fatto che la stella di Bush ha smesso presto di brillare e quella di Obama non risplende, almeno da quelle parti. Il fatto che il terrorismo non è stato azzerato, anzi.
La cura Putin
C’è tuttavia da tenere conto, nell’erosione dell’influenza di Washington, anche della riscossa della Russia. Nel 2001, Mosca era ancora debole e risentiva della sindrome degli anni ’90, epoca di transizione in cui il paese ha attraversato una severa crisi economica e non ha inciso sull’agenda mondiale, lasciando che gli americani s’infilassero senza grossi problemi nel cortile di casa centro-asiatico. Poi, però, gli effetti sortiti dalla “cura Putin” hanno invertito la tendenza. Mosca, con metodi opinabili ma efficaci, ha riconquistato forza e fiducia e grazie all’aumento dei costi dell’energia il Cremlino ha usato spregiudicatamente Gazprom, il suo braccio energetico, ricattando e blandendo a destra e a manca. Il profumo dei rubli ha allettato l’Asia centrale, che dopo la “sbandata” filoamericana s’è fatta riaddomesticare da Mosca. Anche volentieri. Il quintetto centro-asiatico, anche perché ovviamente invogliato dalle promesse riguardanti massicci contributi, ha raffreddato le relazioni con gli americani. Proprio mentre aderiva in blocco – il che non è certo casuale – al progetto russo di creare un contingente militare misto, addestrato da ufficiali di Mosca, per contrastare terrorismo e traffico di oppiacei. Due questioni che la Russia ha a cuore, dacché ritiene che l’espansione del bacino terroristico possa avere effetti devastanti nel Caucaso russo e ha l’angoscia che l’oppio afghano, ritenuto una delle principali minacce alla sicurezza nazionale, penetri a fiumi all’interno dei confini della Federazione, con tutte le conseguenze politiche, economiche e sociali del caso.
Per gli analisti Mosca non vuole solo il roll back americano. Intende anche tenere a distanza la Cina. Con Pechino, ufficialmente, i rapporti sono distesi. Ma l’apparenza, com’è noto, inganna. Il punto è che Putin e Medvedev, in prospettiva, complice la crisi delle culle a Mosca e l’impressionante forza demografica cinese, temono che Pechino possa inghiottirsela, la Russia, sancendone il declino irreversibile. Lavorare affinché “l’impero celeste” non s’avvicini troppo è dunque nell’agenda del Cremlino. I russi tentano di costruire una muraglia. Gli americani lo stesso. Piazzando le proprie armate in Asia centrale, infatti, Bush intendeva non solo rispondere alla minaccia terroristica, ma anche spostare il baricentro a ridosso delle frontiere cinesi, creando un avamposto da cui osservare e monitorare la potenza che verrà. C’è da scommettere che anche Obama e Hillary Clinton sono più o meno sulle stesse posizioni.
Né la Russia, né l’America riescono però a contenere Pechino. Anche perché tra loro si fanno la guerra. La situazione, in generale, è che ci sono due litiganti e un terzo soggetto che gode. La Cina, appunto. Sempre più attiva, sul fronte centro-asiatico. I suoi prodotti hanno invaso la regione. Il governo finanzia l’esplorazione di nuovi bacini petroliferi, contrae accordi per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali e sigla intese per la costruzione di pipeline capaci di portare petrolio e metano a Pechino, sedandone la sete d’energia. Poi c’è lo Xinjiang: avanzare in Asia centrale può tornare utile anche su questo fronte, istituendo una zona franca tra la provincia e gli stan post-sovietici. Nel Great Game, dunque, dopo l’iniziale predominio americano e la rivalsa russa, è venuto il momento di Pechino. Dominerà, in futuro, il Dragone? Gli analisti indicano che ha buone chance. Ma dicono anche che i paesi centro-asiatici non intendono concedersi del tutto. Preferiscono, piuttosto, mantenere canali aperti con tutte e tre le potenze impegnate nella regione. Per fare affari sempre e avere padroni mai. Il grande gioco è ancora all’inizio.
Gli islamisti
Prendi la vicina guerra nell’Afghanistan e delle frontiere non proprio impermeabili, prendi le condizioni di vita misere, prendi un’economia precaria, prendi dei governi un po’ cleptomani che arraffano tutto (petrolio e metano) senza dare niente in cambio e prendi l’assenza dello stato di diritto. Prendi infine una fede, quella islamica, che all’epoca dell’Unione Sovietica venne severamente repressa. La miscela tra tutti questi ingredienti – identità, frustrazione, povertà, rabbia – può essere esplosiva. Può sdoganare l’estremismo e facilitare la penetrazione del “talebanismo”. A dirla tutta sembra che lo abbia già fatto. È da qualche tempo che gli analisti segnalano che il vento dell’Afghanistan abbia iniziato a spazzare pure le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Dove il radicalismo islamico, caratterizzato da elementi di lotta armata, non è più soltanto uno spettro, ma qualcosa di tangibile e concreto. Specialmente in Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan. Nel primo dei tre paesi in questione, il Hizb ut-Tahrir (Partito della liberazione), gruppo dichiarato fuorilegge dalle autorità locali, ispirato da una filosofia orientata a reintrodurre la sharia, avrebbe – così si evince dalle recenti cronache – abbandonato l’obiettivo di perseguire tale fine con mezzi pacifici e abbracciato la causa militare.
In terra uzbeka il fenomeno islamista è anche più robusto. Il Movimento islamico dell’Uzbekistan, che già dieci anni fa si rese protagonista di alcune scorribande armate ponendosi l’obiettivo di riunificare il popolo uzbeko (questo il motivo per cui in passato i membri dell’organizzazione hanno assaltato alcuni villaggi a maggioranza uzbeka situati in territorio kirghizo), ha compiuto un balzo in avanti, quanto a capacità di reclutamento e forza militare. È che diversi miliziani, ideologicamente vicini alla galassia del terrore, hanno “prestato servizio” nelle file di Al Qaeda, sia in Iraq sia in Afghanistan. C’è chi è rimasto, ma c’è anche chi è tornato a casa, importando le tattiche di guerriglia apprese tra Baghdad e Kabul e riprendendo non solo il discorso sospeso in passato, cioè la liberazione del popolo uzbeko, ma allargando il raggio d’azione a tutta la regione, allo scopo di creare un grande califfato. Se, come pare, è nel vicino Tagikistan sempre più persone aderiscono al Movimento islamico, l’idea ha fatto davvero breccia.
La nascita di un network regionale islamista, fondato sull’ideologia militante e motivato dalla volontà di instaurare, in nome della sharia, una sorta di macroregione: è proprio questa la novità degli ultimi tempi. Paul Quinn-Judge, analista dell’International Crisis Group, autorevole think-tank di Bruxelles, ha scritto che dietro militanza e lotta armata «si nasconde in queste aree una mobilitazione complessiva della jihad». Mobilitazione militare, certamente. Ma anche “didattica”. Come ha registrato il sito di Radio Free Europe, nell’area stanno infatti sorgendo sempre più scuole coraniche di ispirazione radicale, non riconosciute dai governi. Davanti a un simile scenario il timore delle forze euro-atlantiche è l’afghanizzazione dell’Asia centrale. A fine gennaio il Segretario Generale della Nato, il danese Anders Fogh Rasmussen, ha sottolineato che l’ipotesi non è affatto campata per aria. «Se l’Afghanistan diventa un porto franco per i terroristi, il terrorismo può diffondersi in tutta l’Asia centrale», ha affermato il numero uno dell’Alleanza atlantica. Aggiungendo, metaforicamente: «L’Afghanistan non è un’isola, quindi la soluzione all’Afghanistan non può arrivare esclusivamente da dentro i suoi confini». Anche Richard Holbrooke, l’inviato della Casa Bianca in Afghanistan e Pakistan, ha spiegato che bisogna tenere conto, come elemento di destabilizzazione, non solo della frontiera afghano-pachistana, ma anche, appunto, dell’Asia centrale.
Effetto domino? Il rischio c’è e oltre agli americani e ai paesi Nato impegnati in Afghanistan, c’è la Russia a temerlo. A Mosca la tesi è che se il fronte afghano si allarga all’Asia centrale, c’è la possibilità che esso si espanda poi dentro lo stesso territorio della Federazione, rinfocolando le mai sopite velleità separatiste dei movimenti islamici della Cecenia, del Daghestan e dell’Ingushezia, sempre piuttosto attivi sulla scena. Ma i rischi non finiscono qui. Secondo lo stimato e ascoltato analista Ahmed Rashid, esperto del mondo talebano, alla crescita del radicalismo bisogna aggiungere un altro pericolo: la prospettiva d’un conflitto regionale che metta l’una di fronte all’altra, le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. A detta dello stesso Rashid potrebbe scoppiare a causa di alcune controversie di frontiera, delle condizioni diffuse di povertà e dell’assenza cronica di acqua. Del resto è risaputo che lo sfruttamento intensivo dei bacini idrici avvenuto in Asia centrale ai tempi dell’Urss, unito ai più recenti effetti del global warming, che hanno lentamente liquefatto una parte della superficie dei ghiacciai situati nelle alture locali, ha portato ognuna delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale a innervosirsi e a prendersela con i rispettivi vicini. Non è detto che la bomba deflagri. Ma la miccia, comunque, è accesa.