“Il problema della democrazia italiana è quello della distanza tra società politica e società civile”, così esordisce Paul Ginsborg, professore di Storia dell’Europa contemporanea all’Università di Firenze, durante la lezione tenuta a Torino per il “ciclo Lezioni Bobbio 2010” insieme a Nadia Urbinati, professoressa di teoria politica alla Columbia University e membro del Consiglio direttivo di Resetdoc. Non si è trattato, durante l’incontro, di stilare lunghi elenchi di difetti delle moderne democrazie rappresentative, ma di esplorarne la complessità e i limiti, così come gli esempi di democrazia riuscita, per meglio comprendere la direzione in cui sta andando il concetto di democrazia e la sua applicazione nella contemporaneità. Per Paul Ginsborg la parola chiave per intendere il limite della democrazia oggi è distanza; una distanza spaziale, economica, sociale, che separa la classe politica dal resto della cittadinanza.
Da una parte, infatti, in Italia i numerosi partiti politici esercitano un potere sproporzionato e si distinguono per l’arroganza e l’arbitrio; dall’altra parte la società civile italiana ostenta un sempre maggiore disinteresse per la vita politica da cui si autoesclude o è esclusa. Se nel presente questa distanza pare incolmabile, Ginsborg apporta, dimostrando il contrario, due interessanti esempi contemporanei di buona pratica democratica, ossia di riavvicinamento tra universo politico e società civile. Il primo esempio è quello americano della Electronic community, un modo rivoluzionario di condurre un’assemblea decisionale: i partecipanti, riuniti in tavoli di 10-15 persone, si confrontano e discutono senza conoscersi tra loro e giungendo ad una decisione entro la fine dell’assemblea. L’altro esempio è quello del Brasile, dove i consigli municipali locali lasciano il potere decisionale nelle mani delle assemblee di quartiere, di cui i consigli sono meri rappresentanti. Esistono insomma nuove e molteplici forme di ri- democratizzazione di quello spazio che oggi divide il politico e il civile, e che possono essere l’unica forma di garanzia di un corretto funzionamento della democrazia rappresentativa moderna.
Nadia Urbinati parte confutando invece la tesi di Francis Fukuyama nel libro “La fine della storia” , intendendo la democrazia non come fine ultimo che “pone fine alla storia dell’uomo”, ma come processo in continua trasformazione: così la democrazia classica ateniese differiva profondamente da quella moderna, tanto che risulta difficile chiamarle entrambe con lo stesso nome. I limiti della democrazia sono intrinseci alla sua “solitudine planetaria” che li rende meno individuabili e più sottili: questa solitudine consiste nel fatto che oggi il “regime democratico” è presentato come il “migliore possibile” e, a differenza della democrazia classica, non ha rivali. Ciò non significa che non vi siano altre forme di governo non democratiche, ma che oggi non esiste una valida alternativa alla democrazia.
Dentro la complessità del sistema democratico contemporaneo, ad una partecipazione indiretta della cittadinanza alla vita politica, corrisponde l’affermarsi di un’indefinibile opinione pubblica, sempre più autoritaria, impersonale e informale. La “democrazia del pubblico” rende invisibile il cittadino, le sue reali esigenze e aspirazioni, laddove in epoca classica era il cittadino ad essere l’attore fondamentale della democrazia. Così nelle moderne democrazie rappresentative vediamo il cittadino ridotto a mero elettore della classe politica, mentre chi forma le opinioni e i giudizi politici rimane un’oscura e poco definita forza che chiamiamo appunto “pubblico”. Urbinati propone dunque delle soluzioni normative coerenti ai diritti individuali di libertà e che al contempo riescano a limitare il potere dell’opinione pubblica. Rendere meno aleatorio il rapporto tra elettore ed eletto. Regolare e limitare le risorse economiche private nella sfera politica. Difendere i sistemi di pubblica informazione, del servizio pubblico. Garantire il pluralismo delle fonti di informazione.