Roberto De Angelis insegna sociologia delle relazioni interculturali all’Università La Sapienza di Roma.
“Che cos’è il multiculturalismo?”. Tutti noi, a senso comune, potremmo azzardare una risposta; dunque può sembrare abbastanza banale coniare una definizione. Qualsiasi tipo di società è “multiculturale”; anche le società “storiche” – oltre a quelle contemporanee o “complesse” – sono sempre state “multietniche”. Un aggettivo, quest’ultimo, oggi utilizzato in maniera molto ambigua. Si parla molto di società multietniche, etnia, etnicità: tutti termini che andrebbero presi con un minimo di attenzione, perché suscettibili di innescare una forte confusione su tematiche di particolare interesse, anche con riferimento alle politiche sociali sull’immigrazione.
Se tutte le società sono sempre state multietniche e multiculturali, quest’ultimo aggettivo oggi si applica per lo più – come stiamo facendo ora – a società complesse, moderne, contemporanee; società nelle quali l’immigrazione – ovvero la presenza di milioni di migranti – ha prodotto importanti trasformazioni sotto il profilo socioeconomico e culturale. Gli attributi “multiculturalista” e “multiculturale”, dunque, si riferiscono a un modello di relazione specifico. Provo a semplificare: dinanzi al problema costituito dalla presenza di milioni di migranti, è necessario che politicamente e culturalmente si producano dei modelli di relazione con queste nuove realtà. E quello multiculturale è uno soltanto dei vari “modelli di relazione” storicamente elaborati e proposti per rapportarsi e cercare in qualche modo di governare. Si governa non semplicemente con il controllo sociale, infatti, ma soprattutto attraverso l’ideologia e la costruzione di strategie retoriche con cui si dà ai propri interlocutori il senso dei fenomeni connessi ai problemi di tutti i giorni.
Il modello americano
Uno dei primi modelli di relazione con le migrazioni, infatti, è il cosiddetto modello “storico”, che chiama in causa le grandi ondate migratorie a cavallo tra Ottocento e Novecento. Pensiamo alle storiche migrazioni che hanno investito le Americhe, oppure il continente australiano: in qualche decennio, città come Chicago sono arrivate a 3,5 milioni di abitanti, con più della metà di migranti provenienti da Paesi europei. Si tratta, com’è evidente, di trasformazioni straordinarie che hanno reso necessaria l’elaborazione di modelli di relazione e strategie retoriche atti a governare le stesse. Allora, non si produsse una retorica multiculturalista, bensì il cosiddetto modello “assimilazionista”. Una delle prime forme assimilazioniste, di cui tutti abbiamo sicuramente sentito parlare, è il melting pot americano. Il crogiuolo, cioè, nel quale si immettevano le diverse culture di provenienza dei migranti, e da cui usciva, per così dire, una fusione nuova. Tale era la metafora che si proponeva del melting pot. Metafora che non esclude, in un certo senso, la considerazione dell’importanza delle diverse culture.
E il cosiddetto “assimilazionismo americano” delle migrazioni storiche è un modello che riconosce l’importanza delle diverse culture al punto tale che, negli Stati Uniti, si poteva essere italo-americani (il trattino ha la sua importanza) essendo orgogliosi delle origini italiane (cioè di conservare in qualche modo una cultura italiana) e contemporaneamente della cittadinanza Usa (per cui non si doveva rinnegare l’italianità, né la cinesità, né l’essere polacchi, e così via, ma si era anche fieri di avere sposato l’“American way of life”, ovvero l’idea dell’individuo che si auto-determina e si arricchisce, nonché un universo valoriale assolutamente nuovo rispetto agli orizzonti più chiusi dei Paesi di partenza).
Proprio in ragione dell’importanza numerica e quantitativa delle migrazioni, la Scuola di Chicago effettua moltissimi studi e stila diversi modelli sui rapporti interetnici. E uno studioso importante come Robert Ezra Park, che fu il direttore di tale scuola, elabora il primo di questi modelli rispondendo a una domanda: come si configura la presenza dei migranti? Si configura con un primo momento che potremmo definire di conflitto, cui segue una fase di adattamento e, infine, un processo di assimilazione. Nel modello americano, dunque, i migranti sono in un primo momento incistati, costretti etnicamente. Stanno accanto ai connazionali, offrono loro il posto letto, vivono nelle baracche, e così via. Poi, pian piano, con l’acquisizione di risorse materiali e simboliche, diventano sempre più americani e addirittura si trasferiscono nei suburbi; lasciano cioè il centro storico degradato non per andare nelle periferie, ma per costruirsi la propria villetta nei quartieri residenziali, in perfetta aderenza con il modello americano. Questo è, in termini assolutamente schematici e semplificati (occorrerebbe parlare anche dei neri americani, sempre assimilati in pieno – nel senso che avevano gli stessi valori dei bianchi – ma di fatto perennemente discriminati), il modello “storico”.
Questi modelli sono falliti? Il melting pot è fallito? Oggi va di moda dire che tutti i modelli siano falliti, giacché ci troviamo ancora una volta di fronte a conflitti e difficoltà. Anzitutto, potremmo dire che il primo modello di relazione interetnica è storicamente determinato, per cui oggi nessuno più parla di melting pot. Modello che, comunque, non ha saputo tutelare quella che era la minoranza nera. E nel cui orizzonte il multiculturalismo ancora non si prospetta affatto. Prendiamo l’ideologia liberale e quella socialista, ovvero i due referenti del modello americano: a ben vedere, entrambe prendono in considerazione il soggetto e mai la comunità. Oggi, invece, quando parliamo di multiculturalismo e comunità, intendiamo queste ultime come un insieme, una collettività.
Come esemplificare il pensiero liberale? Possiamo dire che – perdonate la brutale schematizzazione – passando alla modernità si lascia una solidarietà “etnica” o “di sangue” o “tribale” per abbracciare una società “complessa”. Secondo il modello durkheimiano, si passa da una solidarietà “meccanica” a una “organica”, dove gli individui stanno insieme in virtù della straordinaria divisione sociale del lavoro. Durkheim aveva una visione assolutamente antagonista rispetto a quella marxiana: tutto “funziona” e i diversi ruoli sociali non creano conflitto bensì armonia per cui, ad esempio, l’addetto alla pulizia delle scale ha bisogno del neurochirurgo, e viceversa. In tal modo si costruisce un’armonia della divisione sociale del lavoro: la solidarietà etnica tende a scomparire e, sempre secondo il modello socialista, le nuove relazioni e l’appartenenza di classe dei lavoratori ex-etnici disgregano, per così dire, gli status precedenti.
Il modello francese
Passiamo ad altri modelli e altre migrazioni in un certo senso “storiche”. Quali conosciamo? C’è la migrazione per la ricostruzione, nel dopoguerra, del Vecchio Continente distrutto da lotte che oggi, intenti come siamo a forgiare un’Europa straordinariamente solidale a pochi decenni di distanza da quei conflitti intestini spaventosi (il Novecento è stato uno dei secoli più spaventosi da questo punto di vista), diremmo “fratricide”. Per la ricostruzione del dopoguerra, infatti, i Paesi europei hanno fortissimo bisogno di manodopera. Si produce quindi un flusso di migranti, soprattutto dagli ex Paesi coloniali ma anche, come nel caso tedesco, attraverso dei veri e propri contratti stipulati dai governi per la ricostruzione. Nel nostro Paese tutto ciò non avviene, perché qui si attinge a quelle che erano e sono le “colonie” interne: il Sud, cioè, manda al Centro e al Nord i migranti per la ricostruzione. Anche in questo caso, dunque, si è reso necessario governare attraverso strategie retoriche la presenza di milioni di lavoratori che chiedono la soddisfazione di bisogni materiali, ma anche un senso rispetto alla loro collocazione nella società.
A questo punto, si prospettano due modelli distinti: il modello assimilazionista-giacobino-universalista, cioè quello francese, e il modello multiculturalista, di cui ora abbozzeremo una definizione. Nel modello giacobino francese, le differenze di carattere etnico–culturale sono ovviamente riconosciute, come potevano esserlo nella considerazione del pluralismo evocato, in qualche modo, dal melting pot. In Francia, però, vige rigorosamente il presupposto che il modello repubblicano venga sposato in pieno. Ricorderete la questione, scoppiata nel 1989, relativa all’hijab e alle diverse forme di velo islamico: di qui la legge, risalente addirittura al 2004, che vieta negli spazi pubblici francesi l’utilizzo dell’hijab, appunto. Il velo, cioè, che in Italia non spaventa assolutamente nessuno (anzi, in genere molti insegnanti desidererebbero avere qualche studentessa velata per potere intraprendere una discussione sul multiculturalismo), in Francia crea delle autentiche paranoie.
Il modello britannico
Dall’altra parte, invece, troviamo il modello multiculturalista o comunitario, che è più vicino al modello di relazione proposto in alcuni Paesi del Nord Europa, e in particolare in Gran Bretagna. Qui – ancora una vota semplificando oltremisura – la comunità viene riconosciuta come collettività culturale e, in un certo senso, quale interlocutrice rispetto a quelli che sono, invece, i diritti e doveri dei cittadini britannici. Si tratta di una questione estremamente complessa, e difatti tutta una serie di studiosi – in particolare John Rex già negli anni Ottanta – intervengono per sostenere l’importanza del fatto che, almeno nello spazio pubblico, anche il modello multiculturalista offra a tutti pari chance in termini di cittadinanza. Provo a spiegarmi meglio: uno dei primi modelli multiculturalisti venne applicato dal Sudafrica, che giustificava l’apartheid anche con una strategia retorica multiculturalista, appunto: negli anni Settanta circolavano documentari – ricordo che nel 1969 insegnavo nelle scuole e ne vidi uno – realizzati dai sudafricani e da cui emergeva che, in fin dei conti, i bianchi erano soltanto ubriaconi e pieni di difetti, per cui occorreva che i neri restassero con la loro cultura. Si adducevano addirittura giustificazioni di carattere antropologico, sottacendo il fatto che la differenza culturale veniva riconosciuta soltanto al fine di tenere qualcun altro subalterno. Mancava questo “piccolo” passaggio, diciamo così.
Il modello britannico, ma adottato anche da altri Paesi, riconosce le comunità come “interlocutrici” collettive. Ciò rappresenta un ulteriore sforzo rispetto alla concezione liberale e socialista secondo la quale, tra l’altro, non si è considerati in rapporto alle appartenenze. La costituzione dello Stato può difendere la nostra appartenenza religiosa, proprio perché tutti noi siamo anche portatori di diritti culturali collettivi, oltreché individuali. E il modello in esame riconosce proprio questi diritti. I problemi sorgono laddove il riconoscimento, come nel caso del Sudafrica, è un po’ una presa in giro. D’altra parte, in certi casi è possibile riconoscere diritti collettivi anche proponendo una discriminazione “positiva” per cui, ad esempio, si decide di bandire un concorso per tranviere e riservare tutti i posti disponibili ad immigrati pakistani, senza tenere conto di requisiti come la terza media, e il possesso di tutte le caratteristiche generalmente richieste a chi aspira a fare quel mestiere. Il pakistano in quanto tale, insomma, ha diritto a un determinato impiego: di qui la discriminazione. Anche noi ci siamo avvalsi di politiche di questo tipo, ad esempio, nei confronti dei disabili. Il portatore di handicap ha diritto a una discriminazione positiva proprio perché riteniamo fondamentale che il lavoro, oltre all’istruzione scolastica, conferisca una pienezza di diritti. E la pienezza per essere e potersi sentire cittadini.
John Rex è uno degli intellettuali più impegnati sul fronte delle aporie e dei problemi che il comunitarismo produce. Dal comunitarismo, infatti, scaturiscono situazioni anche paradossali, e spesso i migranti affrontano l’impresa della diaspora anche per liberarsi dalle loro “gabbie comunitarie”. La nostra retorica multiculturalista, in genere, suppone che l’immigrato porti sempre con sé un proprio patrimonio culturale, sia ferito nella propria identità e cerchi di rapportarsi continuamente a quella che è una sua cultura, un suo pacchetto identitario immodificabile legato al Paese di provenienza. Spesso, invece, i migranti – non soltanto nella storia americana, dov’è in qualche modo il meglio dell’Europa (da una parte i galeotti, dall’altra i trasgressivi oppure gli inquieti, politicamente inaffidabili) – erano semplicemente costretti ad affrontare questa avventura transoceanica. Rendere la comunità in qualche modo interlocutrice privilegiata, dunque, può favorire tutta una serie di passi avanti.
Una mia allieva, dottoranda di relazioni etniche all’Università di Birmingham, ha un’amica di origine pakistana che fa la giudice. Diamo per scontato, quindi, che abbia un alto livello scolastico e di relazioni sociali. Ebbene, questa giovane giudice di origine pakistana (ma ovviamente britannica) si è vista imporre dalla propria famiglia un matrimonio combinato. È stata quindi costretta a sposare un gay, anch’egli pakistano, pur avendo un compagno, soltanto al fine di soddisfare quelli che sono obblighi comunitari cui, probabilmente, neanche la comunità stessa crede. Proprio perché, così facendo, si costruiscono dei paradossali teatri sociali. Qui non stiamo parlando di Hina, la ragazza uccisa dal padre perché colpevole di andare in discoteca, ma di una giudice costretta in un gioco di teatro dal momento che la comunità è enfatizzata anche per questioni di opportunismo politico.
Il film “La sposa turca” racconta più o meno la stessa storia. Protagonista, in questo caso, non è una giudice ma una ragazza che sposa un tossico, cosicché tutti siano contenti. Lei cerca disperatamente di portare avanti un proprio destino e un’auto-determinazione da occidentale, da modernizzata a tutti gli effetti. Non ci riesce, ma quello voleva. E, di fatto, era più occidentale e più trasgressiva, per così dire, delle ragazze più trasgressive che conosciamo noi. Alla fine le toccherà un destino in qualche modo “etnico”, avrà un figlio… Manterrà sempre una certa consapevolezza, ma è costretta dagli aspetti coatti della propria comunità a comportarsi in un determinato modo.
Il caso delle banlieue parigine
Ora, sono falliti questi modelli? A mio avviso, tutti i modelli in sé conservano degli aspetti positivi. Non bisogna accontentarsi, tuttavia, delle strategie retoriche, come spesso fanno i “produttori di discorsi”, che non cercano mai di andare a fondo e, magari, guardare ai singoli casi. Tutti noi spesso ci accontentiamo, anche a livello specialistico, di tante parole d’ordine. Eppure, se non approfondiamo certe situazioni potremmo sentenziare: “E’ fallito il modello assimilazionista francese, in quanto la rivolta delle banlieue del novembre 2005 ha mostrato che ai migranti locali non piace”. Ovviamente non è così, perché normalmente si pensa che l’assimilazione, cioè l’abbandono del proprio pacchetto identitario, avvenga dopo l’integrazione socioeconomica dell’individuo e il suo graduale adattamento anche sotto il profilo ideologico. Quello francese è a tutti gli effetti un caso mal letto dai media e da tanti commentatori, nel quale si sono visti, invece, attori sociali assolutamente “assimilati” (cioè francesi considerati da se stessi e a tutti gli effetti tali) ma non integrati, i quali scatenano quella che è stata definita una rivolta razziale, etnica, religiosa (c’è un forte riferimento all’Islam). Nulla di tutto ciò è avvenuto. Il fenomeno cui ci troviamo di fronte non ha avuto rappresentanza, diversamente dalla situazione italiana, dove ce n’è forse troppa (ma questo è un altro discorso).
Cosa scrivevano, questi ragazzi, sui muri di Parigi? Non “Viva l’Islam” o cose del genere; scrivevano “Nique la Police” (“Fotti la polizia”) come nei ghetti dei neri americani… Certo, si tratta di espressioni pre-politiche, ribellistiche per certi versi, ma anche da riot, cioè da rivolte che nulla hanno a che fare con l’appartenenza etnica. Questi ragazzi giovanissimi, che addirittura hanno bruciato le proprie scuole e le macchine dei vicini di casa – e questo è considerato sempre più assurdo –, si considerano e si sentono in tutto e per tutto francesi. È, la loro, una ribellione di francesi in contesti ove si scontano tassi di disoccupazione dell’ordine del 50 per cento. I loro genitori, ad esempio, vivono nelle cité in condizioni decisamente migliori rispetto alla realtà in cui si trovavano i migranti italiani. Perché le cité, questi paesi-satellite intorno a Parigi, sono sì dei posti-ghetto, con un’alta concentrazione di soggetti disoccupati e così via, ma dal punto di vista della qualità “edilizia” sono sicuramente più vivibili di certe nostre orrende periferie.
Che è successo, allora, in questi anni? È successo che le cité-satellite e i comuni della cinta parigina in una situazione ancora fordista, cioè con una forte presenza di classi operaie, erano guidati da amministrazioni comuniste o social-comuniste; era dunque forte l’attenzione alle cosiddette politiche sociali interne (biblioteche di zona, maisons de la jeunesse, etc.) che hanno garantito una certa tenuta sociale. A ciò ha fatto seguito una fase in cui anche il proletariato e sottoproletariato urbano (termini anche questi, oggi, assolutamente discutibili) hanno promosso strategie di identificazione, in pieno con quanto veniva fatto con i coetanei francesi. Il movimento dei beurs (“arabi” in verlan), ad esempio, era (ed è ancora, perché Radio beur è molto ascoltata) un fenomeno che di etnico non ha assolutamente nulla.
È fallito questo modello? No, a mio avviso il modello assimilazionista non è fallito. Anzi, i maghrebini sono odiati in Francia da Jean-Marie Le Pen (il leader del Fronte Nazionale, ndr), per dire, molto di più degli asiatici. Perché? Perché i maghrebini sono francesi a tutti gli effetti, e ciò dà molto fastidio. Mentre gli asiatici vengono visti, sotto il profilo comunitario, come piccole formiche, gli altri si presentano nella loro individualità, nelle proprie forme di ribellione, vicini alla cultura di origine. E questo dà fastidio al punto tale che, invece, nella strategia retorica razzista senza razza (vedremo qui di seguito il concetto), i maghrebini vengono etnicizzati al massimo. La presenza dei maghrebini, cioè, diventa incommensurabile con l’identità culturale francese. Il che è un paradosso, perché si elabora una strategia retorica di relazione con chi è già francese a tutti gli effetti, e non si costruisce con chi, rispetto ai maghrebini, incarna sicuramente una maggiore “diversità”. Ad essere fallito non è probabilmente il modello, bensì le politiche sociali nei confronti di settori della società francese in forte sofferenza sociale (non si parla di migranti, quindi). Settori che, però, non vivono una crisi di identità, perché quest’ultima deriva in larga parte dal lavoro, dalle relazioni, dalla rappresentanza politica, sindacale e così via.
È fallito il modello multiculturalista britannico, adottato anche in larga parte del Nord Europa e, sotto certi aspetti, in Olanda? Più che fallito, tale modello è stato messo in crisi dal terrorismo, che oggi ha un po’ azzerato tutto divenendo un’ulteriore variabile. Prima occorreva fare i conti con una variabile interna rispetto alle contraddizioni del neoliberismo, che promette tanta felicità per tutti e invece lascia interi settori sociali in forte deprivazione e sofferenza sociale, il che è riconducibile alle profonde trasformazioni del nostro tempo, che coinvolgono autoctoni e migranti o anche non migranti (occorre dunque operare, di volta in volta, i necessari distinguo). Ora c’è anche la variabile del terrorismo, che sta dando adito a strategie retoriche e di relazione con l’alterità sempre più stereotipate.
Un’ultima considerazione: ho accennato alle forze “razziste”, eppure oggi di razzismo non si dovrebbe più discutere, giacché nessuno parla più di “razza” utilizzando argomenti razzisti, appunto. Dagli anni Ottanta in poi, in Italia in particolare, le strategie retoriche (perdonate la brutta espressione) hanno messo al bando il termine “razza”. All’inizio, parlando di immigrazione si era soliti constatare che “La società italiana è divenuta multirazziale, multietnica e multiculturale”. Si è ormai superato, anche in ambito scientifico, il concetto di razza inteso ad uso e consumo delle ex politiche coloniali, e oggi gli studiosi ci danno indicazioni che si limitano a puntualizzare. Siamo ben lontani da quella che era una visione stereotipata, razzista, in auge dagli inizi del secolo scorso sino alla tragedia della Seconda guerra mondiale.
Adesso, si diceva, nessuno utilizza più il termine “razza”: né le forze progressive, né le forze reazionarie che potremmo definire per certi versi “razziste”. Ma si ricorre al termine “razzismo” a ogni piè sospinto: si accusa questo o quello di essere “razzista” perché, ad esempio, non ha rispetto delle donne. Il razzismo è una teoria della disuguaglianza, una teoria organica nella quale io dico, ad esempio: “I gialli sono inferiori ai bianchi perché la corteccia cerebrale è meno buona”, o perché sono meno potenti sessualmente. Ma oggi nessuno tocca più questi argomenti. Salvo gli specialisti che portano avanti un dibattito – e questo è un elemento sociologico importante – che non interessa più a nessuno, complice l’influsso del politicamente corretto. E se il termine “razziale” è ancora tradizionalmente utilizzato nel mondo anglosassone (multiracial, racial relations), da noi e in altri contesti europei non se ne parla affatto.
Chi è contro l’immigrazione elabora, oggi, strategie retoriche di rifiuto basate su ragionamenti che, piuttosto, riguardano gli aspetti culturali, introducendo argomenti essenzialisti. I “razzisti”, cioè, che non possiamo più chiamare tali perché hanno smesso di utilizzare il termine “razza” – a Roma, per dire, vediamo poche scritte sui muri; ce n’è una sola che dice “potere bianco”, ed è chiaramente una scritta razzista – si rifanno alla concezione essenzialista, secondo cui tutte le culture sono immodificabili, e qualsiasi migrante che s’immette nel nostro contesto socioculturale è implicitamente o esplicitamente testimone di una differenza incommensurabile, la quale mette per forza in crisi la coerenza del nostro modello identitario. Questa è la visione cui attingono a ogni piè sospinto i nostri leghisti. Di qui i paradossi: la Lega Nord è secessionista e dunque anti-nazionale, ma poi si rifà a discorsi universalistici. Il suo leader, Umberto Bossi, si porta il tricolore in bagno, per poi parlare – anche se non invoca l’unità nazionale – addirittura della necessità di porre i principi cristiani alla base della Costituzione europea. Dimenticando i sui riti di “fondazione” pagani, con tanto di ampolle sacre del Po. Anche tutti questi paradossi costruiscono retoriche.