Sedici cristiani uccisi, chiese buttate giù a dozzine e case diventate ammassi di cenere. Tutto in nome di dio, o meglio dell’assortita schiera di divinità che costellano il pantheon induista. Le violenze esplose nello Stato orientale dell’Orissa rappresentano l’ultimo capitolo della storia delle persecuzioni contro la comunità cristiana dell’India da parte dei fondamentalisti indù. E sono solo uno dei tanti focolai che puntellano l’attuale mappamondo del terrorismo religioso. Dal qaedismo di Bin Laden all’anti-sionismo iraniano o palestinese, dall’ossessione cinese per i seguaci della Chiesa romana e del Falun Gong ai cristiani perseguitati in Nigeria o Iraq: la conta delle guerre di religione è enorme e in continuo aggiornamento. Non c’è stata fede che non abbia indossato nella sua storia i panni della vittima come quelli del carnefice. Persino i buddisti, proverbialmente pacifisti, hanno commesso atrocità contro i musulmani dello Sri Lanka. Eppure, non di rado, la religione diventa lo spettro da agitare per celare motivazioni che col sacro hanno poco a che fare. E il caso indiano ne è un esempio.
L’hindutva (ideologia del nazionalismo indù, ndr) è la chiave per capire la barbarie dell’Orissa commessa contro i cristiani. Nata negli anni Venti del secolo scorso e diventata prepotentemente presente nella politica indiana dagli anni ottanta – in barba al secolarismo invocato dall’ex primo ministro Jawaharlal Nehru – l’hindutva proclama la necessità di un’India induista e del mantenimento del rigido sistema castale. La sua prima incarnazione politica fu il Rashtriya Swayamsevak Sangh, nato nel 1925. Ma è stato soprattutto con la nascita del Baratiya Janata Party (BJP) nel 1980 che l’induismo politico ha ampliato la sua base tra le masse e si è fatto strada nelle istituzioni. La volontà di affermare l’hindutva ha prima bersagliato la comunità musulmana dell’India. La reazione all’incendio di un treno dove erano morti una sessantina di indù, che scatenò un pogrom in cui persero la vita circa 2.000 musulmani, rappresenta la ferita più profonda del rapporto tra indù e islamici. Ma da una decina di anni l’intolleranza anti-cristiana, nutrita anche da memorie coloniali, ha iniziato a produrre scontri sempre più frequenti.
Ad essere messe sotto accusa dalla propaganda induista sono soprattutto le conversioni religiose. Non a caso sono spesso i religiosi a cadere vittima di tale intolleranza. Un rapporto dell’All India Christian Council (Aicc), stilato in base ai dati del Ministero dell’Interno di New Delhi, ha dimostrato che le violenze hanno toccato nel 2007 il loro massimo dai tempi dell’indipendenza del 1947. Anzi, ci sono stati più gesti di violenza anti-cristiana l’anno scorso che nei 60 anni dell’India repubblicana. Se tra il 1950 e il 1998 vi sono stati 50 assalti ai cristiani, nel 2000 si è arrivati a 100 e tra il 2001 e il 2005 si è passati a ben 200 incidenti, mentre nel 2006 se ne sono registrati 128. Il 2007 ha visto una vera e propria escalation, con oltre 1.000 azioni anti-cristiane.
Uno degli episodi più barbari degli ultimi anni è stato, nel 1999, l’omicidio del prete australiano Graham Staines: arso vivo, nella sua macchina, con i due figli. Il pentecostale Dilip Dalai è stato invece ucciso nel 2005 a pugnalate e come Staines lavorava in Orissa. L’anno successivo lo Stato del Goa, storicamente modello di convivenza tra diverse comunità, è stato teatro dell’uccisione di padre Eusebio Ferrao. Ancora nel 2006, persino un ordine religioso rispettato in India come quello legato a Madre Teresa è stato colpito dall’odio induista, quando una folla è riuscita a far arrestare quattro suore con l’accusa di forzare alla conversione i pazienti di un ospedale. Quest’anno, pochi giorni prima che deflagrasse la rabbia induista dell’Orissa, il carmelitano Thomas Pandippallyil è stato trovato senza vita, con braccia e gambe spezzate, in Andra Pradesh. Capita poi che le violenze siano caricate di simboli dai loro registi. Nel 2007, ad esempio, membri del movimento fondamentalista Rashtriya Swayamsevak Sangh hanno finto di riconvertire due cristiani rasandoli e immergendoli nel Gange. Mentre partiti radicali come il Vishiva Hindu Parishad amano distribuire trishul (il tridente con cui è raffigurato il dio Shiva) ai loro fedeli, affinché li usino come strumento di minaccia, se non come arma.
L’attività missionaria, concentrata principalmente negli Stati più poveri del subocontinente come l’Orissa, l’Andra Pradesh e il Madhya Pradesh, ha portato sì carità e servizi alle popolazioni, ma anche l’aspirazione della gente ad appartenere a fedi più egualitarie di quella brahaminica. Il proselitismo cristiano ha in pratica incontrato il desiderio di emancipazione socio-economica dei Dalit, gli intoccabili, e degli Adivasi, le popolazioni tribali. Questo ha scatenato la furia dei movimenti radicali induisti, che hanno visto nelle conversioni il germe della loro destabilizzazione sociale e politica. Da una parte, infatti, per i partiti induisti radicali la “cristianizzazione” delle fasce indigenti si traduce nella perdita di elettorato a livello locale e nazionale. Per intenderci basta dire che, nel Gujarat, tribali e intoccabili rappresentano il 20% della popolazione, il 40% nell’Orissa. Allo stesso tempo i seguaci più ferventi dell’hindutva, che appartengono alle caste più elevate come quella dei bramini, fanno leva sul rispetto della tradizione castale perché temono un’erosione del loro status socio-economico.
Anche se episodi di violenza contro i cristiani si sono verificati in maniera più sistematica solo negli ultimi anni, l’induismo radicale tenta da decenni di fermare “l’invasione cristiana” anche grazie all’approvazione di leggi anti-conversione. Nel 1967 l’Orissa è stato il primo Stato a varare una norma che punisce chi obbliga con la forza qualcun altro a cambiare religione. L’esempio è stato poi seguito da almeno altri sei dei 29 Stati indiani. Nell’Orissa i cristiani rappresentano il 5% della popolazione, in un Paese dove l’incidenza media è del 2,5%. Di fronte a queste cifre, l’intransigenza induista non solo ha lanciato accuse ai missionari di costringere al cristianesimo le popolazioni, ma ha anche avviato campagne di riconversione. Riportare sulla “retta via” i seguaci di Cristo era per l’appunto lo scopo che il ledaer religioso indù Swami Laxmananda Saraswati portava avanti da anni. E’ stata la sua uccisione a scatenare l’ultima rappresaglia anti-cristiana dell’Orissa. Gli induisti radicali non hanno voluto dar credito alla tesi della polizia secondo cui l’assassinio è stata opera di ribelli maoisti. Attribuire la colpa al “complotto cristiano” è stato più congeniale alla loro fede, politica.