Rifacendosi al buon senso laico di scuola francese, Debray osserva, annota, riflette in una specie di diario di bordo tutto ciò che vede senza cercare di trarne un disegno o di fornire una chiave di lettura ma servendosene come spunto per una riflessione più grande sull’uomo e i suoi limiti. Il suo sguardo non è quello del giornalista e ancor meno dello specialista del Medio Oriente, ma quello di uno scrittore, di un intellettuale, di uno ‘scrutatore di anime’ che vede, sente, vive la Terra Santa. Che oggi non è più soltanto la Galilea o la Giudea dei Vangeli. Ma è Ramallah, Gaza, Betlemme, Nablus. “Cristiano d’educazione – annota Debray – non ho più altra religione che lo studio delle religioni”. Un romanzo/inchiesta, dunque, in cui Debray decide di incarnare un ‘idiota’ nel senso più dostojevskiano del termine, che si reca, sulle orme di Gesù, in Israele, Palestina, Giordania, Libano, Egitto, Siria, Gaza. Certo, il suo è un piglio meno sacro, più disincantato soprattutto di fronte ad una realtà, spesso violenta, che ti trascina volente o nolente con i piedi per terra.
Ma nel suo racconto trapela anche una nostalgia ed un’amarezza per quei luoghi un tempo teatro di gesta sacre ed immortali ed oggi preda di un terrore cieco e senza nome. “Gesù – dice Debray – poteva attraversare tutti questi paesi senza carta d’identità né visto. Gesù poteva attraversare il Giordano e ritornare il giorno dopo sulla medesima riva”. Oggi tutto ciò non è più possibile. Sono necessari visti, permessi speciali. Occorre attraversare nazioni in guerra, check points, villaggi distrutti, campagne i cui uliveti secolari sono stati oramai violentati per sempre da un muro di cemento armato. La Terra Santa è cambiata molto da allora. Ma allora forse non si tratta di fare il medesimo viaggio di Gesù quanto piuttosto di seguirne i passi, dalla nascita a Betlemme alla morte sul Golgota, per scoprire come cristiani, ebrei e musulmani vivono oggi la propria fede ma anche il conflitto. Un conflitto esasperato, che ruota intorno ad un’unica e medesima terra. Il racconto dunque si tinge di memorie di personaggi, di abitanti, di luoghi, sfiora l’inchiesta per ritornare di nuovo pellegrinaggio nei luoghi sacri, memoria di viaggio d’un flaneur del Medio Oriente. In esso fanno capolino alcuni personaggi come Ramez Jaraisi, cristiano e comunista e alla testa del partito moderato ‘Nazareth Democratic Front’ o del curato di Nazareth, Emile Choufani, una specie di Don Camillo che incarna la perfetta sintesi del Medio Oriente e delle tre religioni monoteiste.
“Sono arabo – dice a Debray – di cultura musulmana, di religione cristiana, di memoria bizantina che vive in un contesto ebraico. Io sono la storia di questa regione da oltre tremila anni”. Gli si potrebbe dare torto? Nel racconto, che oscilla tra memoria intimista e reportage giornalistico, i profumi, i colori ed i paesaggi della Terra Santa condiscono le immagini nitide della violenza quotidiana ma anche del coraggio di uomini che lottano strenuamente per la propria terra. A Beit Hanoun, borgata palestinese da dove partono i razzi Qassam verso Sderot, in Israele, Debray si sofferma sulla descrizione di una città fantasma. Ferri piegati, balconi distrutti che vomitano macerie, muri nerastri e bucherellati dalle pallottole dell’artiglieria pesante di Tsahal. In una casa sventrata ed in mezzo alle rovine vive la famiglia di Athamana. Ha perso quasi tutta la sua famiglia durante gli ultimi bombardamenti israeliani. Gli resta solo un figlio di 7 anni con un piede amputato: “Non sono mai stato terrorista – dice amaro a Debray – come dicono laggiù in Israele. Hanno distrutto la nostra società. Non crediamo più a niente. Hanno fatto di noi dei mostri”. Di fronte a tanto orrore e desolazione l’autore si chiede: “Che fa l’Onu? Perché non trasloca da New York a Gerusalemme, nella città tre volte santa, a metà strada tra Oriente e Occidente che santificherebbe con la sua sola presenza?”. Nella valle del Giordano Debray ritorna sui luoghi del battesimo di Cristo ad opera di Giovanni Battista, il Baptism Site.
Difficile arrivarci. “Più facile dunque parlare del Giordano che vederlo” – annota Debray – “vietato avvicinarsi perché è zona militare” dal lato israeliano. Occorre recarsi ad Amman, in Giordania, uscire dalla città, e proseguire in direzione del Mar Morto. Ed eccolo dunque il luogo del battesimo. Il fiume scorre luccicante nella luce dorata della valle. Le rive del Giordano sono costeggiate da cespugli odorosi di lauri. “Il battesimo senza battistero – scrive Debray incantato dal luogo – all’aria aperta, più vicino alla sorgente viva (e che vita, quella eterna!)”. Passaggio breve a Tel Aviv, una Berlino coi piedi nell’acqua (come le palme d’Egitto), un’America mediterranea, una Miami presso i Beduini. A Tel Aviv un osservatore sussurra all’orecchio di Debray: “Israele ha perso la sua vocazione laica e socialista, tutto ciò è inquietante”. Un altro amico, a Gerusalemme, gli dirà la cosa opposta: “Sono inquieto, Israele ha dimenticato la sua scelta e la sua vocazione religiosa”. Paradossale. Segno forse di una visibile fragilità del popolo israeliano. Un popolo che soprattutto ha paura. Paura di scomparire, di essere rigettato in mare, come tuoneggiano minacciose le brigate verdi dei martiri di Al-Aqsa.
Ed i palestinesi? Hanno ormai paura di questa paura. Una tappa a Tiro e Sidone dove secondo Matteo Gesù si ritirò per un periodo. Le due città oggi appartengono al Libano. Debray ne approfitta per offrire un omaggio alla memoria del suo amico giornalista Samir Kassir, assassinato probabilmente dai servizi segreti siriani. “Caro Samir Kassir – annota Debray – Non è una buona cosa essere arabi oggi scrivesti nell’incipit ironico del libro che mi hai lasciato prima di partire (…) E’ stato quando ho appreso del tuo assassinio a Beirut, una sera d’estate, il 2 giugno 2005, tre mesi dopo l’assassinio del primo ministro Rafic Hariri che l’ho riaperto con mia grande vergogna (…) Da quel giorno le tue Considerazioni sul malessere arabo non mi hanno più lasciato”. Ultima tappa a Gerusalemme, dove si chiude il ciclo e dove la vita terrena muore per risorgere a vita ultraterrena. Gerusalemme città santa. Gerusalemme città della pace. Della città dell’epoca di Cristo resta poco. Saccheggiata da Tito, rasa al suolo da Adriano, conquistata dai califfi, poi dai crociati, poi nuovamente dal Saladino, dal 1967 è occupata dagli israeliani. La descrizione della città si apre con un dialogo surreale tra l’autore ed un israeliano a Gerusalemme Ovest. “Esiste un momento più propizio per farsi saltare in aria?” chiede l’autore. “Si, il mattino – gli risponde l’amico israeliano – Per finire nel tg serale il kamikaze deve dare il tempo ai giornalisti di montare il servizio e di commentarlo”.
Nella città vecchia le case dei palestinesi vengono comprate a prezzo d’oro. La conquista della città araba continua, strisciante. Anche attraverso espropri. O colpi bassi. Come quello dell’ex patriarca Ireneo, reo di aver venduto per conto dello stato d’Israele un hotel del quartiere ortodosso ad una organizzazione sionista americana. Gli arabi della città vecchia di Gerusalemme sono accerchiati ormai. Per quieto vivere hanno appeso bandiere con la stella di Davide ai balconi. “Gli arabi cristiani possono dire tutto quello che vogliono – commenta sarcastico il patriarca Teofilo III – saranno sempre trattati come cittadini di seconda fascia, che fanno il doppio gioco. Essere arabi significa essere musulmani”. Salendo verso la città vecchia le case dei palestinesi si arrampicano come edera sulla collina. Dalle finestre pende la biancheria e le lenzuola bianche stese ad asciugare si gonfiano come vele al vento sui balconi. Sembra Napoli, nota l’autore. Le ultime tracce di Gesù giacciono non lontano da qui, sul Monte degli ulivi, nel giardino di Getsemani. Il viaggio finisce qui. Ma la cosa più dura, commenta l’autore, è il ritorno. Come si fa a dimenticare Gerusalemme? Piuttosto che dimenticare meglio scagliare un’ultima invettiva contro il fanatismo religioso e contro quelle pietre arse dal sole dove si concentra tutto l’odio interreligioso: “Odio le feroci imbecillità delle credenze religiose, odio i sistemi d’intolleranza che ci fanno scambiare i messia per delle lanterne (…) Chiedo un diseducazione religiosa, la disinvenzione della bomba atomica e la restaurazione, in tutti i suoi diritti e in tutta la sua dignità, dell’uomo senza Dio”. Ecce homo, verrebbe da dire. Un uomo senza Dio che appare però come il cieco del quadro di Peter Bruegel. Per quanto si sforzi di essere un buon condottiero di anime non può evitare di finire, con altri ciechi, nel fosso buio dell’oblio.