“Se fra tre giorni non ci vedete, venite a cercarci” avevano detto all’ambasciata italiana di Beirut. Era il 1° settembre 1980. Il giorno dopo, Italo Toni e Graziella De Palo sono usciti dall’Hotel Triumph, che li ospitava, per recarsi con una jeep del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nei pressi del castello di Beaufort, su una delle linee di fuoco con Israele. Il FPLP ha però sempre negato. Da allora se ne è persa ogni traccia e da allora sono passati trentuno anni; anni di false piste e di misteri, di speranze prima accese e poi di nuovo spente. Giornalisti freelance, come si direbbe ora, Italo ne avrebbe oggi ottantuno e Graziella cinquantacinque. Lui si occupava da tempo di politica internazionale e della questione palestinese con una serie di articoli pubblicati su Il Ponte, L’Astrolabio, Diari. Noto, anche, il suo reportage dai campi di addestramento della guerriglia palestinese venduto al francese Paris-Match e diventato subito uno scoop mondiale.
Lei, molto più giovane, aveva iniziato a seguire per conto di Paese Sera e per L’Astrolabio i traffici internazionali d’armi che avvengono in violazione degli embargo delle Nazioni Unite grazie anche al controllo “troppo compiacente” dei nostri servizi segreti, alludendo al ruolo giocato dal colonnello Stefano Giovannoni, capocentro del SISMI in Medio Oriente.
Sono morti, presumibilmente, come si legge nel testo della Procura della Repubblica depositato presso il tribunale di Roma del 4 febbraio 1985 e firmato dal sostituto procuratore Giancarlo Armati: “non sembra possano sussistere ulteriori ragionevoli dubbi sulla sorte dei due giornalisti Toni e De Palo”. Secondo una nota inviata dall’ambasciatore di allora in Libano, Stefano D’Andrea, il capo della Sûreté Nationale, Faruk Abillamah, avrebbe ammesso: “i due sono stati uccisi dal gruppo di Habash, subito o quasi”. Eppure i corpi non sono mai stati trovati. Anzi in un primo momento alla famiglia De Palo vennero date informazioni differenti: Italo era stato ucciso, perché accusato di essere una spia, poco dopo il sequestro, Graziella no. Lei, secondo lo stesso Yasser Arafat, a capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, sarebbe stata risparmiata.
False speranze, “diffuse ad arte”, come sottolinea ancora Armati che al termine dell’istruzione formale chiede il rinvio a giudizio per George Habash, a capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e per Stefano Giovannone e Damiano Balestra (il maresciallo dei carabinieri che lavorava all’ambasciata di Beirut e passava copie delle informative dell’ambasciatore ai servizi).
I punti oscuri
Ad oggi ancora non è chiaro il ruolo avuto dall’ambasciata italiana e del Ministero degli Esteri. Perché se è vero che Toni e De Palo chiesero al Primo Consigliere Tonini, che in quei giorni sostituiva l’ambasciatore Stefano D’Andrea in ferie, di dare l’allarme se non si fossero più fatti vivi è anche vero che il ministero degli Esteri negò successivamente anche l’esistenza di un consigliere Tonini. Che qualcosa era successo si capì solo il 15 settembre, quando i due non fecero rientro in Italia come previsto. Dopo alcune richieste di accertamenti all’Olp e al loro rappresentante in Italia, Nemer Hammad, risultate inconcludenti, la famiglia De Palo denunciò così alla Farnesina la scomparsa di Graziella e del compagno. Quindi a dare l’allarme non fu l’ambasciata italiana a tempo debito, cioè il 5 o 6 settembre. I media ne parleranno infatti solo il 2 ottobre, cioè un mese dopo la scomparsa.
E per tutti i mesi successivi, Ministero degli Esteri e Servizi non fecero altro che consigliare ai familiari di Graziella di restare cauti, non sollevare polveroni per non compromettere l’esito delle ricerche. Eppure il 17 ottobre, l’ambasciatore italiano Stefano D’Andrea con un telegramma classificato “Urgentissimo – Riservato” aveva comunicato alla Farnesina “gli specialisti libanesi seguono una traccia precisa: rapimento da parte del Fatah su richiesta siriana”, con nomi e cognomi dei sequestratori.
Ambiguo anche il ruolo dell’Olp e di Nemer Hammad che prima afferma di conoscere Graziella da anni, assicurando che la ragazza si troverebbe “in una casa, sorvegliata da donne arabe” e che il loro ufficio in Libano segue la situazione, salvo poi sostenere di non sapere nulla: “noi abbiamo fatto solo una lettera di accredito. Si vede che se ne saranno serviti per altri loro fini”.
“Penso che Graziella sia stata presa dai falangisti. La polizia dell’Olp collabora alle sue ricerche, coordinate dal colonnello Giovannone: è bravo…”.
Il ruolo dei servizi
Il colonnello Stefano Giovannone è uno degli uomini chiave di questa vicenda. Volto noto agli ambienti palestinesi in Libano, Giovannone lavora in quegli anni per conto del Sismi a Beirut e i suoi rapporti con l’Olp sono talmente buoni da essere uno dei pochi con un lasciapassare dell’organizzazione. Giovannone ha la piena fiducia degli ambienti palestinesi e potrebbe essere l’uomo migliore per risolvere il caso. Ma il colonnello è anche il personaggio preso di mira da Graziella De Palo nei suoi articoli sul traffico di armi, nonché il garante, come si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, di una “sorta di patto di non belligeranza”, il cosiddetto Lodo Moro, che proteggerebbe l’Italia da eventuali attacchi terroristici. Non è un caso, quindi, se la pista palestinese di cui aveva parlato l’ambasciatore D’Andrea non viene presa in considerazione a favore della pista cristiano-falangista che poi risulterà essere falsa, dando ragione a D’Andrea.
E infatti come scrive ancora il Pm Giancarlo Armati nella richiesta di rinvio a procedere, “come se fosse uno degli ultimi agenti dei Servizi di un qualsiasi paese..non riesce a fare meglio che invischiarsi in alcune cicliche inconcludenti con personaggi libanesi di secondo piano”.
Giovannone è autore di un depistaggio che allontana progressivamente dalla scoperta della verità e una delle verità è che lui “non poteva non sapere”, come appura la stessa procura. “Ed infatti egli seppe, subito o quasi, la sorte in cui erano incorsi i due giornalisti”, ma “si adoperò per ‘coprire’ le responsabilità palestinesi”.
Lo scenario così creato, prosegue il Pm Giancarlo Armati, “fu poi abilmente sfruttato dai palestinesi, che per bocca di Arafat affermarono che i due giornalisti erano stati catturati dai falangisti nel settore cristiano mentre scattavano fotografie”.
Per capire l’improbabilità di questa tesi occorre tornare alla Beirut di quegli anni, in preda alla sanguinosa guerra civile che si concluse solo nel 1990. Italo e Graziella erano giunti nella capitale libanese con un permesso dell’Olp, dei palestinesi quindi. Il quartiere cristiano e quello musulmano erano divisi da una linea di demarcazione, settore est e settore ovest, una delimitazione visibile ancora oggi in quegli edifici che mostrano i segni della follia che ha governato il Paese dei Cedri per quindici anni. La linea verde che corre lungo la “via di Damasco” non era facilmente attraversabile né era così semplice fare fotografie, se si considera che anche oggi, nella zona sciita di Beirut controllata da Hezbollah, non è possibile aggirarsi senza il lasciapassare del Partito di Dio.
Un puzzle incompleto
E qui lo scenario su cui muoversi si sposta in Italia e ovviamente ci si muove nel campo delle ipotesi. Dopo trentuno anni quello che resta di Graziella De Palo e Italo Toni è una storia è fatta di tasselli da incastrare e di linee da tracciare. Di fatti accostati ad altri fatti. E un fatto è che i servizi segreti che hanno gestito l’inchiesta risultarono essere legati alla loggia massonica P2.
Era della P2 il capo dei servizi segreti che si occupò della sparizione, il generale Giuseppe Santovito, poi incriminato insieme al capo del centro Sismi di Beirut Stefano Giovannone. Lo era il segretario generale della Farnesina, Malfatti di Montetretto; il generale Giulio Grassini, capo del Sisde e Walter Pelosi, del Cesis, così come il prefetto Mario Semprini, segretario particolare dell’onorevole Forlani.
È un fatto anche che i personaggi invischiati a vario titolo nella vicenda sono morti. È morto Giovannone, è morto Francesco Cossiga, presidente del Consiglio all’epoca della scomparsa e delle prime indagini; sono morti Yasser Arafat e George Habash. E c’è poi un segreto di Stato: documenti in parte declassificati dal Copasir, e in parte no, almeno fino al 2014.
La domanda che resta aperta è: perché? E perché proprio loro? Si sono occupati di qualcosa che non dovevano toccare? O sono caduti vittime inconsapevoli di un gioco molto più grande?
Le ipotesi, perché di questo si tratta, portano anche alla pista del traffico di armi. Che in quegli passava anche per il Libano. Il brigatista Patrizio Peci, arrestato il 18 febbraio del 1980, descrisse bene i rapporti fra Br e vertici dell’Olp. Si parlò anche dei rapporti tra Olp e P2.
C’è poi un’altra data che spicca, secondo la famiglia De Palo ed è quella della strage di Bologna, avvenuta esattamente un mese prima del loro sequestro, e anche in questo caso ci si muoverebbe in ambienti palestinesi, il cui possibile coinvolgimento nella strage è stato ipotizzato in anni più recenti.
C’è poi chi, come il giornalista Amedeo Ricucci, che si è occupato ampiamente del caso, incrociando dati e date presuppone che il sequestro Toni-De Palo possa essere legato all’arresto in Italia di Abu Anzeh Saleh e utilizzato inizialmente come merce di scambio. Anche Saleh aveva ottimi rapporti con il colonnello Giovannone. Un nome che ritorna troppe volte.